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  1. Un salutone a tutti! Dopo tanto tempo sono qua di nuovo anch'io, purtroppo con poco tempo a disposizione! Ma "vi tengo d'occhio"! Baci da Bs edit: ho rimosso un pò di cose nella ia firma ma temo di aver tolto tutto, vabbè, pazienza!
  2. [ben]bmw1150rt[/ben] Qui chiudo
  3. [ben]a.savarese[/ben] discussione doppia, chiudo e si continua qui
  4. [ben]indri[/ben] nota: il titolo della discussione l'ho modificato io
  5. Buona domenica!
  6. L'Europa a Grillo: "Spiegaci l'Italia" E' nell'occhio della Digos, non fa più ridere, ma il pubblico lo adora ANDREA SCANZI MILANO Quando entra, il pubblico gli tributa una standing ovation a prescindere. Lui, puntualmente, prima scherza sul tempo passato, sui capelli grigi e sulla pancia pingue, poi quasi si commuove. E' un applauso totalizzante, al passato. Ai trent'anni di carriera di Beppe Grillo. C'è un pubblico che ne ha capito la svolta divulgativo-arrabbiata e segue il suo blog (il 15° al mondo per accessi) con devozione messianica. Ma c'è anche, ed è forse la maggioranza, una parte di paganti che applaude il ricordo: quello di Te lo do io il Brasile, quello di Sanremo. Quello che non c'è più. Ogni sera, da più di un decennio, Grillo riempie i Palasport. In tv non lo vogliono, le interviste non le concede perché «i giornali sono superati». E' un Grillo altro, sorta di Don Chisciotte spigoloso e sentenziante, ma lo spettatore comune è affezionato alle cristallizzazioni. Accadeva anche a Giorgio Gaber: c'era chi capiva la svolta teatrale e chi andava a vederlo aspettandosi ancora Non arrossire. Gli spettacoli di Grillo sono arringhe informate e incazzose, fiumi di bile e notizie inedite che sforano le tre ore. L'apoteosi iniziale diventa, minuto dopo minuto, applauso misurato. Gli apprezzamenti più convinti coincidono con le chiose cerchiobottiste: la politica che «son tutti uguali», i giornalisti «che son tutti servi». Quando però Grillo affonda, mostrando il censuratissimo (solo in Italia) documentario Bbc sulla pedofilia nella Chiesa Cattolica, la platea si divide. Per una delle molte stranezze italiane, è accaduto che gli unici comici di professione siano ormai quelli che non fanno ridere quasi mai. Roberto Benigni, le battute, le fa quasi per dovere, troppo preso da Petrarca e Nicoletta Braschi. Daniele Luttazzi, comprensibilmente, deve smaltire l'ostracismo dell'ukase bulgaro. E Grillo le trovate migliori le ripete con mestiere, sperando che il pubblico non sia così fedele da ricordare che Berlusconi era «lo Psiconano» e Fassino «Globulo» già negli show di dieci anni fa. Il Grillo di oggi è un savonaroliano deliberatamente apocalittico, braccato dalla Digos, querelatissimo, munito di epigoni (nuovi Crozza crescono), insuperabile nell'arte di arringare ed encomiabile nella volontà di smascherare i troppi sfaceli della società contemporanea: i banchieri «nuovi usurai», i finti buoni, gli industriali pagati per distruggere le aziende, l'informazione che non informa e una politica rimasta alle guerre puniche. Geronzi, Tronchetti Provera, Moratti, D'Alema, Mastella, Prodi, Berlusconi, Rutelli, la Consob: sono solo alcuni dei suoi nemici, di fronte ai quali l'unica salvezza è «resettare» il cervello (Reset è il titolo dello spettacolo) e affidarsi ai poteri taumaturgici di Internet e dei Meetup, sorta di nuclei avanguardisti sparsi in ogni città col compito di concretizzare a livello locale le battaglie di Grillo. Ogni suo spettacolo fa più pensare che ridere. Fa pensare alla censura, alla sinistra italiana che perde per strada i «cantori» di un tempo. Fa pensare che i satirici si sono reinventati tribuni e nel migliore dei casi hanno scoperchiato i crack della Parmalat. E' certo divertente sapere che Bertinotti e Sgarbi non sappiano come si scrive «www» o «chiocciola». Meno ilarità genera scoprire come la Comunità Europea abbia invitato Beppe Grillo (a luglio) per scoprire come davvero funziona l'Italia. La transustanziazione di Grillo da comico a predicatore cassandrico è forse sintomatica di una confusione fatale. Di una rabbia che sfocia nella paura, nell'invettiva, nel qualunquismo. Nella lotta non contro ma a favore dei mulini a vento, intesi come fonte eolica. FONTE
  7. Il protagonista è sempre Harrison Ford, la regia di Steven Spielberg Indiana Jones 4 uscirà nel maggio 2008 Attese per quasi 20 anni le riprese del quarto episodio della saga dell'archeologo avventuriero cominceranno a giugno LOS ANGELES (USA) - Alla fine il film si farà. Gli appassionati dovranno aspettare ancora un anno, ma a distanza di quasi 20 anni dal terzo episodio (1989), il 22 maggio 2008 dovrebbe uscire nelle sale Indiana Jones 4. La regia sarà sempre di Steven Spielberg e il protagonista sempre Harrison Ford. IL FILM - Dopo la riscrittura nel corso degli anni di diverse sceneggiature George Lucas che sarà tra i produttori si è lasciato sfuggire durante la visione del Gran premio di Formula 1 a Montecarlo che le riprese inizieranno a giugno. Il film il cui titolo non ufficiale è «Indiana Jones e la città degli Dei» si dovrebbe basare sulle tesi sostenute dallo scrittore Erich von Däniken nel libro «Gli extraterrestri torneranno» (1968). La tesi di Von Daniken (che ha venduto con i suoi libri più di 62 milioni di copie e ha creato il Mistery Park di Interlaken in Svizzera) è che dei super progrediti extraterrestri, provenienti da un'altra galassia, visitarono la terra migliaia di anni fa, crearono uomini intelligenti a loro somiglianza, alterando il codice genetico delle scimmie. Vennero adorati come dei dal genere umano per le loro immense conoscenze tecniche, delle quali restano vaghe tracce nelle diverse mitologie mondiali. Il film, che potrebbe vedere tra gli interpreti anche Cate Blanchett e Sean Connery, si dovrebbe aprire con una spettacolare lotta tra Indiana Jones e alcuni agenti segreti russi all'interno della misteriosa Area 51 la base militare americana in cui la credenza popolare vorrebbe nascosti segreti inconfessabili. FONTE
  8. Quarant'anni fa "Sgt. Pepper" fece la sua rivoluzione di Francesco Prisco Giusto quaranta anni fa si consumò la rivoluzione che ha fatto meno vittime e più proseliti del Novecento. Nessuna dichiarazione d'indipendenza, niente rovesciamenti dell'ordine costituito, decapitazioni di tiranni o prese del Palazzo d'Inverno. L'1 giugno 1967 l'unico muro a cadere fu quello che separava musica colta e musica popolare: i Beatles diedero alle stampe "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band", «il primo disco pop ad essere preso sul serio» stando al giudizio del caposcuola del minimalismo musicale Philip Glass, l'album che inaugurò la prima "Estate dell'amore", segnò il culmine e sancì l'inizio della fine per l'irripetibile parabola culturale degli anni Sessanta. Oltre trenta milioni di copie vendute nel mondo di cui 4,8 milioni nella sola Gran Bretagna (secondo piazzamento di sempre), undici dischi di platino Usa, il primato fra i "Definitive 200 Albums" scelti dalla Rock and Roll Hall of Fame e il premio come miglior disco di tutti i tempi secondo l'autorevole rivista americana "Rolling Stone". Quelli che apparirebbero risultati ingombranti per la carriera di qualsiasi musicista, a malapena rendono idea della straordinaria complessità del fenomeno "Sgt. Pepper". E' un disco rock che coniuga ricerca di nuovi territori musicali e una buona dose di autoironia, armonie vocali e rumorismo minimalista, sprazzi di psichedelia e suggestioni sinfoniche in una ubriacante miscela di sapienza compositiva. E' una concept opera ideata, quasi inconsapevolmente, prima che il genere diventasse canone prediletto dalle avanguardie progressive. E' semplicemente arte in tutti i suoi 39 minuti e 43 secondi, dalla prima nota fino all'ultimo dettaglio del packaging. Sulla genesi del progetto si incrociano aneddoti dei protagonisti e leggende metropolitane. Secondo la tradizione, a fare la prima mossa fu Paul McCartney che, di ritorno da un viaggio all'estero con il fido road manager Mal Evans, pensò di trascinare i ragazzi del gruppo in un'avventura che per quanto possibile fosse qualcosa di più del pur eccezionale "Revolver" (1966). Il modello a quanto pare fu "Pet Sounds" (1966) dei Beach Boys, album di pop e contaminazioni che - ironia della sorte - a sua volta proprio a "Revolver" si ispirava. Il "concept" di riferimento, con la "Banda dei cuori solitari" agli ordini del Sergente Pepper, Paul lo trovò nell'immaginario delle brass bands, le orchestre di piazza tanto popolari nel Regno Unito ai primi del Novecento. Da qui partiva un'idea folgorante: ciascun membro dei Beatles si sarebbe scelto un alter ego nella "Banda dei cuori solitari" e l'avrebbe interpretato. Pare che John Lennon, troppo preso dalla crisi del suo matrimonio con Cynthia Powell, e George Harrison, troppo preso dagli insegnamenti Hindu, guardassero a seconda delle circostanze con ironia o distacco al progetto. Non è un caso se delle 13 canzoni dell'album Paul ne compone 7 in pressoché totale autonomia (tra queste la title track che è probabilmente il suo pezzo del disco più noto). Per quanto misurato, il contributo di Lennon e Harrison è qualitativamente eccelso. John mette in fila i capolavori "Lucy in the sky with diamands" e "Being for the benefit of Mr. Kite" con la divertente "Good morning good morning, George apre il lato B del disco con "Within you, without you", riflessione indiana a base di sitar e tabla. Insieme Lennon e McCartney affidano a Ringo Starr "With a little help from my friend" che (con 21 cover di artisti diversi) diventerà il pezzo del disco più reinterpretato, ma soprattutto "A day in the life", capolavoro di scrittura del duo di Liverpool nel quale emergono magnificamente le loro complementari diversità. A fare il resto ci pensarono il produttore George Martin, unico a meritare veramente l'abusato epiteto di "quinto beatle", e l'ingegnere del suono Geoff Emerick che ebbero il complicato compito di tradurre in musica tutte le bizzarrie effettistiche che passavano per la mente di John e soci. Le sedute di incisione durarono 129 giorni, in un'epoca in cui per sfornare un Lp le case discografiche ti mettevano a disposizione a malapena un paio di settimane. La copertina del Time del 22 settembre 1967Semplicemente arte è anche la celeberrima copertina-collage con tutti gli "eroi" dei Fab Four, realizzata dal genio della Pop Art inglese Peter Blake e fotografata da Michael Cooper. "Galeotto" fu il mercante d'arte Robert Fraser, dal quale i Beatles si servivano per spendere le migliaia di sterline in surplus: presentò a Paul lo stesso Blake, aprendo la lunga stagione delle copertine d'autore. Qualcosa cambiava nella band e non solo: se ne accorse il magazine "Time" che dedicò la copertina del numero del 22 settembre 1967 alla «nuova incarnazione» dei Beatles. Come ogni capolavoro che si rispetti, "Sgt. Pepper" ha una letteratura interamente dedicata nell'ambito della quale spiccano "Estate d'amore e di rivolta" dell'ex addetto stampa dei Beatles Derek Taylor (in Italia edito da Shake) ma soprattutto "Summer of love: the making of Sgt. Pepper", scritto addirittura da George Martin. I lettori italiani possono poi optare per il recente "Sgt. Pepper – La vera storia", rilettura divertente e divertita dell'album a cura di Riccardo Bertoncelli e Franco Zanetti. In tempi di anniversari gli omaggi si moltiplicano. Ma qual è il tributo migliore che si possa offrire al "Sgt. Pepper"? Se lo chiese ammirato un venticinquenne americano a sole due settimane dall'uscita del disco. Rispose d'istinto: riportò la title track all'essenzialità di un riff di chitarra elettrica e la cantò davanti a più di 200mila persone. Non era uno qualsiasi: si chiamava Jimi Hendrix. L'estate dell'amore sarebbe stata anche la sua estate. FONTE
  9. Nell'elenco i classici del terrore, ma anche pellicole per bambini Film: le 100 scene più spaventose della storia Il sito di cinema Retrocrush ha compilato una classifica dei momenti più terrificanti mai apparsi sul grande schermo MILANO - Ci sono teschi, sangue a fiumi, serial killer ed alieni. Ma anche momenti in cui la paura arriva in modi meno espliciti, da un racconto intorno al fuoco o da un sorriso che si trasforma in ghigno. È comunque tutta da sfogliare la divertente classifica delle 100 scene più spaventose del cinema, stilata dal sito Retrocrush : «È stato un lavoro fatto con grande passione», scrive il compilatore Robert Berry. «È facile parlare di film che mettono paura, ma volevamo individuare alcune sequenze davvero terrorizzanti. Alcuni film non hanno un'atmosfera spaventosa, ma tuttavia includono momenti capaci di regalare brividi degni di menzione. Per divertimento cercate di individuare le pellicole guardando solo un fotogramma e prima di scrivermi per dire perché non ho incluso un film, accertatevi che non lo abbia davvero fatto». COMPENDIO DELL'HORROR - A scorrere questo interessante compendio del cinema horror, corredato da un commento sul perché il tal film è stato scelto e sulla sua fortuna, si scoprono grandi classici come Il fantasma dell'Opera, King Kong e Frankenstein, con mostri provenienti dalla fantasia e Freaks di Tod Browning, in cui l'orrore proveniva da vere deformità. I decenni più rappresentati sono naturalmente quelli del '70 e '80, in cui arrivarono al cinema veri e propri capolavori come «Lo squalo», «L'esorcista», «Shining» (in assoluto il più citato), «Carrie – Lo sguardo di Satana», «Alien», «Nightmare» e via rabbrividendo. Ma nella lista c'è anche qualche sorpresa, come «Il mago di Oz», citato per le scimmie alate «una presenza capace di dare sgomento a qualunque bambino», «Dumbo», con la scena dell'allucinazione alcolica dell'elefantino, e La moglie del soldato, «per un momento che ha scioccato milioni di spettatori ma è meglio non svelare». In ogni caso la passione per il cinema che mette i brividi non passa mai di moda, come dimostra l'imminente arrivo nelle nostre sale di una serie di film davvero spaventosi: si comincia con «Hostel 2», cult di efferatezze varie in territorio Tarantino, il 15 giugno, si prosegue con «Disturbia», remake de «La finestra sul cortile» il 22 giugno, e si finisce con «Vacancy», storia di una coppia che finisce in un hotel dove vengono girati film horror con veri omicidi, il 20 luglio. A curiosi e intenditori, dopo aver sfogliato la classifica, non resta che cimentarsi con il quiz in lingua inglese lanciato con incredibile successo da M&M's: scoprire i 50 film dark che si nascondono in un dipinto in stile Hieronymus Bosch (altro procacciatore di incubi), non sarà facile. Franco Gondrano FONTE
  10. La Fox ha acquisito i diritti dalla Electronic Arts per il gioco che in 5 anni ha incassato un miliardo e mezzo di dollari Un po' Truman show, un po' Matrix Hollywood prepara il film dei Sims L'idea: mettere in scena il rapporto fra il giocatore e il suo alter ego. Il primo nel ruolo di burattinaio, il secondo in quello di burattino di JAIME D'ALESSANDRO THE SIMS, serie di videogame che nel mondo ha venduto circa 85 milioni di copie, presto diventerà un film. A sostenerlo è la rivista americana Variety, secondo la quale la 20th Century Fox ha acquisito i diritti dalla Electronic Arts, l'editore, e sta già lavorando sul progetto. Del resto l'ultima opera di Will Wright, padre di The Sims e sorta di re Mida dei giochi elettronici (lo stesso che nel 1987 inventò Sim City), è il titolo più venduto per Pc della storia e in cinque anni ha incassato più di un miliardo e mezzo di dollari. Di qui l'idea della Fox di trasformarlo in un successo cinematografico. Il problema è capire come farà la Fox a portare sul grande schermo un videogame del genere che non ha una trama vera e propria dalla quale partire a differenza di Tomb Riader, Resident Evil, Silent Hill o altri giochi diventati negli ultimi anni dei lungometraggi. The Sims infatti è una simulazione sociale nella quale si gestisce il proprio alter ego alle prese con le normali urgenze quotidiane. Non ci sono conflitti da vincere, né nemici da sterminare: bisogna semplicemente vivere riuscendo ad avere una bella casa, un buon lavoro e perfino una famiglia. Tutto ruota in pratica attorno alle scelte compiute dal giocatore, che vanno dal determinare l'aspetto del proprio avatar fino ai suoi rapporti sociali, alla forma e all'arredamento della sua casa, al tipo di occupazione. Una quotidianità digitale divertente da vivere, molto meno da guardare. Anche se poi in America c'è chi ha creato un'intera sitcom digitale intitolata Strangerhood partendo proprio da The Sims. Uno degli esempi migliori di quel fenomeno noto con il nome di "machinima", animazioni realizzate con i videogame, poco compatibile però con le grandi produzioni hollywoodiane. Eppure Steve Asbell e Rod Humble, che stanno supervisionando il progetto rispettivamente per la Fox e la Electronic Arts, sono convinti che si possa comunque mettere in piedi un film. "The Sims è una versione interattiva di una storia antica", sostiene Humble. "Racconta cosa accade quando si ha nelle mani un enorme potere e bisogna saperci fare i conti". Sembra quindi che i due vogliano mettere in scena il rapporto fra il giocatore e il suo alter ego, con il primo nel ruolo di burattinaio e il secondo in quello di burattino. Qualcosa che forse potrebbe assomigliare a The Truman Show unito a Matrix. Assieme a Virtual Me, il film di The Sims fa parte della nuova strategia dell'Electronic Arts. Il più importante editore di giochi elettronici in circolazione sta infatti tentando nuove strade per andare oltre il settore dei videogame. Un settore redditizio ma che, con l'arrivo delle console di nuova generazione, ormai richiede enormi investimenti a fronte di rischi elevati. FONTE
  11. Fra 20 anni sentiremo i Radiohead ANDREA SCANZI La longevità è la grande assente della musica contemporanea. A mancare non è tanto la genialità, quanto la capacità di invecchiare. I Bruce Springsteen non nascono più: al massimo, ed è già molto, spunta ogni tanto un Damien Rice. La supernova generata dagli irripetibili anni 60-70 ha fatto sì che, ancora oggi, band più decrepite che storiche riempiano gli stadi. Se in politica il ricambio generazionale è negato dall'attaccamento alle poltrone degli immarcescibili primattori, nella musica il cambio d'epoca è negato dal fiato corto dei giovani. Oggi non è infrequente l'exploit dell'ennesima next big thing che fa gridare al miracolo. I talenti, a cercarli, ci sono. Solo che si spengono subito. Neanche tre dischi e il loro suono non è che uno stanco reiterarsi di se stessi. E' il caso dei Coldplay: adorabili all'esordio, ispirati nell'opera seconda, pleonastici al terzo disco. E la tanto sbandierata elettronica, «la nuova frontiera», non è che fila di meteore stese al sole (Chemical Brothers, Moby, Fat Boy Slim). Difficile immaginare band contemporanee che ascolteremo tra 20 anni. A maturare meglio sono coloro che, alla facile auto-clonazione, preferiscono la rivoluzione. Lo stravolgimento. Il rischio. A inizio 90, Jeff Tweedy aveva titillato il bilico della critica d'essai inventando il cosiddetto «alternative country» con il suo gruppo, gli Uncle Tupelo. Un bel giorno ha mollato tutto e fondato un'altra band, i Wilco. Era il 1995 e sono ancora lì, tra echi del folk di Woody Guthrie, rock sporco alla Neil Young e un'idea chiara di musica nuova . Troppo di nicchia? Un altro nome possibile, senza dimenticare il rock longevo dei Pearl Jam, sono i Radiohead, capaci dal 1993 a oggi di gestire la sperimentazione, svecchiandosi con sonorità a volte estreme ma comunque proprie, dinamiche. Come per i Wilco, più che un gruppo i Radiohead sono una microgalassia che vive di luce riflessa. Il faro dei Radiohead, Thom Yorke, è un Leopardi del rock con l'occhio sbilenco e il grugno triste, lineamenti alieni e idee artistiche in grado di durare (sempre che un giorno non soggiaccia definitivamente alla follia cara ai diamanti pazzi). Kurt Cobain preferì il fuoco indimenticabile di un giorno alla labile fiammella che a poco poco si spegne. Il guaio è che gran parte dei suoi epigoni non sono né fuoco, né fiammella. FONTE
  12. Police, i vecchi ragazzi giocano ancora Sting pare rivitalizzato, la voce è ancora più duttile, il fisico integro. Partono con "Message in a bottle", rinfrescato da un buon restyling MARINELLA VENEGONI INVIATA A VANCOUVER Aveva appena finito il tour di Labyrinth, musiche del 500. «Guardavo il mio liuto appoggiato all'angolo della stanza, e mi sono chiesto: E ora, che faccio? Un altro disco di liuto? Ma dove? Un altro disco di Sting? No, sarebbe la solita storia. Che cosa sorprenderebbe la gente? Che cosa sorprenderebbe me?». Così - per noia, per ansia - è nata l'anno scorso l'idea della riunione dei Police, come confessa l'eternamente bel tenebroso bassista. Si capisce bene che ora è galvanizzato, sul palco della GM Place, davanti a 20 mila canadesi e viaggiatori da tutto il mondo, età dai venti ai sessanta, entusiasmo a mille. Lui sempre così chic si è vestito da tamarro, maglietta senza maniche, braghe strette negli scarponcini, capelli cortissimi e sì, tinti. Riuniti qui a Vancouver per il debutto, la prima volta dal 1986, sembrano tornati biondi tutti e tre, i Police. Come per il famoso spot del chewing gum che li fece conoscere. Infilano e ridisegnano 21 successi, in due ore senza tregua: e chiudono con la furia di Next To You, che fu il primo singolo giusto 30 anni fa, nel maggio 1977, quando usarono il punk come cavallo di tr**a per entrare nel musicbusiness. C'è aria fresca di revival, ma i tre sono tutt'altro che bolliti. Ordine di vitalità: primo, Sting. In fondo, questo è il suo concerto: lui i suoi pezzi ha continuato a cantarli, e ora la voce sembra ancora più duttile e sicura, il fiato c'è, il fisico è integro, la presenza magnetica. Sembra rivitalizzato. Certo, gli altri due aggiungono alle canzoni una sincerità e una profondità che la band di Sting solista non poteva possedere. Secondo è Copeland, macchina da ritmo alla batteria; la banda nera sotto la frangetta tiene fermi pure gli occhiali, e anche lui ha una luce di divertimento negli occhi, erompe spesso in grida selvagge, ridà solida vita al ritmo reggae che era diventato un retaggio della memoria. Terzo, Summers. Talvolta sembra voglia strafare, con quella chitarra pomposa e un po' barocca, addomesticata poi dal rigore che assume la parte centrale dello show, dove si raggiunge un più efficace equilibrio stilistico e sonoro fra reggae, rock, spruzzate jazzy, improvvisazioni varie in pezzi di fattura sofisticata come Wrapped Around Your Fingers, The Bed's Too Big Without You e Murder By Numbers: qui c'è un richiamo all'attualità; il brano era ispirato alle guerre di religione in Irlanda, e parlava del cinismo dei politici che trasformano il loro cuore in pietra, e i morti in numeri. Sting al microfono: «Nel 1983 il reverendo Jimmy Swaggart decise che questo pezzo era stato scritto dal diavolo in persona»; ma le guerre evolvono, e ora sui maxischermi scorrono immagini dei conflitti mediorientali in corso. Il concerto era partito con la voce del nume tutelare del reggae, Bob Marley, che cantava Get Up Stand Up...Don't Give Up the Fight. Citazione doverosa per una band che fece successo in levare, e che ora recupera quel ritmo ormai consumato con iniezioni di nuova freschezza, nelle contaminazioni che sono una specialità di Sting e di tutta la ditta Police. Nell'attesa incandescente della folla, spezzata da un colpo di gong, i tre hanno sparato per prima Message in a Bottle, il marchio più riconoscibile. Ma è parso subito chiaro che erano stati fatti lavori di restyling: suoni crudi per Synchronicity II che dura sei minuti, un rock più deciso in Every Breath You Take, reggae d'assalto in Spirits in the Material World e in Don't Stand So Close to Me dove Sting fa il buffone, si spruzza menta in bocca e si annusa poi un'ascella per mostrare cosa succede a stare troppo vicini. C'è una bella energia, insomma, venata di umorismo. Come di tre ragazzini di 54 (Copeland), 55 (Sting) e 64 anni (Summers) che si sono ritrovati e riescono nuovamente a giocare insieme, divertendosi, guardandosi in faccia, avvicinandosi spesso l'uno all'altro: in fondo, sono fra i pochi dinosauri del rock a non essersi mai fatti reciprocamente causa. A chiudere prima dei bis è Roxanne, un altro monumento, rifatta in chiave tribale dalla ritmica di Copeland; Sting ci dà dentro suonando un basso che ha l'aria di essere quello consumato dei buoni tempi antichi. Si intuisce nei bis che il concerto potrebbe ridecollare ora, nella complessità della riscrittura di pezzi come King of Pain o So Lonely. Invece il tempo scade, e i tre abbandonano finalmente la loro elegante arena ovale, nera e metallica, talvolta delimitata da un maxischermo trasparente, che ospita il tour nelle arene coperte. Baci e abbracci. Urla di Copeland e del pubblico. Davvero, una gran festa è appena cominciata. FONTE
  13. Paul Newman dice addio: "Col cinema ho chiuso" Il saluto dell'attore: "Non riesco più a lavorare, cinquant'anni sullo schermo bastano " NEW YORK Non lo vedremo più sul grande schermo, se non nei ruoli che lo hanno reso celebre come «Butch Cassidy», «La stangata» e «La gatta sul tetto che scotta». Paul Newman ha dato il suo addio al cinema e ha annunciato che non reciterà più. «Non sono più capace di farlo come vorrei» ha detto all'emittente ABC, «si comincia a perdere la memoria, la fiducia in se stessi, la creatività. Perciò sono convinto che per quanto mi riguarda si tratta di un capitolo chiuso». Non resterà certo con le mani in mano l'uomo che ha di fatto lanciato gli alimenti biologici mettendo la propria faccia sulle etichette della «Newman's Own», un colosso da 250 milioni di dollari di fatturato che devolve tutto in beneficenza. «Sono grato per le altre cose che sono entrate a far parte della mia vita» ha aggiunto l'82enne collezionista di Oscar -sul suo caminetto ce ne sono sei- il cinema, ha assicurato, non gli mancherà. FONTE