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Ian Gillan, Album Solo E Ricordi

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Ian Gillan, album solo e ricordi: 'Pavarotti invidiava la mia libertà'

“Mi trovavo in Polonia per il Capodanno, una settimana tra le montagne innevate a bere vodka e spassarmela. Dopo una visita alle miniere di sale di Wieliczka ero seduto in un caffè del quartiere ebraico di Cracovia, nella zona in cui Spielberg ha girato ‘Schindler’s list’: il mio amico Tommy era tutto intento a spiegarmi la storia quando dietro di lui, all’improvviso, è apparsa una donna stupenda e mi sono distratto. ‘Ehi, hai un occhio rivolto al Caucaso e l’altro al Marocco!’, mi ha fatto notare, citando un tipico modo di dire polacco. Me ne sono ricordato mentre preparavo il mio nuovo disco. Il Caucaso per i polacchi significava Mosca e il Cremlino, ma per me voleva dire Deep Purple. E questo album era il mio Marocco, una fantasia e un viaggio tutto mio”.

Ian Gillan, grande affabulatore incline a preamboli, parentesi e divagazioni, introduce così “One eye to Morocco”, primo disco solista in dieci anni fitti di impegni con i Purple, rinati a nuova vita dopo l’innesto del chitarrista Steve Morse e del tastierista Don Airey. La metafora del titolo, spiega, viene utile a spiegare una collezione di canzoni che rappresentano anche “una sorta di viaggio mistico e onirico, una strada che ti si srotola davanti. Qui dentro ci sono musiche che con i Deep Purple non avrei mai potuto incidere. Questo disco è un atto d’amore, è stato un piacere registrarlo”. Più difficile accettare compromessi con altri musicisti o caricarsi, come in questo caso, tutto il peso sulle spalle? “La vita intera è un alternarsi di queste situazioni, non puoi separare la musica dalle relazioni personali. A volte funzionano, a volte è come trovarsi nella bocca di un vulcano. Guarda i fratelli Davies dei Kinks…A metà anni Sessanta giocavo spesso a pallone con loro per beneficenza: finivano inevitabilmente per azzuffarsi e per prendersi a pugni. Ray allora guidava come un pazzo, per guadagnare tempo quando il semaforo era rosso passava direttamente sui marciapiedi. Per fortuna era domenica mattina, ed erano poco frequentati dai pedoni. Ma finiva lo stesso che Dave si incavolava e dava inizio a una scazzottata. E’ nella natura delle cose, no? I giovani si accapigliano più volentieri degli anziani. Crescendo si diventa più filosofici, più interessati alla spiritualità. Quando cominci a diventare adulto e ad avere dei figli senti il peso delle responsabilità, devi trovare altri modi di incanalare la ribellione e lo spirito avventuroso. E’ per questo che oggi porto i capelli corti! Me li ero fatti crescere, da ragazzo, perché cavalcando a torso nudo, nei giorni d’estate, mi facevano sentire come un primitivo. Passati i quarant’anni, ho pensato che fosse stupido continuare a tenerli lunghi sulle spalle. Trovo ridicole tutte quelle teste argentate con la coda di cavallo che si vedono in giro… finisci per diventare una caricatura di te stesso”.

Non tutti nei Deep Purple la pensano magari allo stesso modo: ma tant’è, quella è la sua famiglia. “Eh sì”, annuisce Gillan, “una famiglia organizzata, disciplinata: come il Cremlino, appunto. Un gruppo di persone che ha sempre tratto forza dalla diversità dei suoi componenti. Jon Lord aveva un’educazione musicale classica alle spalle. Ritchie Blackmore, al fianco di Joe Meek, è stato forse il primo chitarrista free lance a lavorare a tempo pieno negli studi di registrazione londinesi. Ian Paice era cresciuto con le big band dell’epoca swing, e Roger Glover era attratto dal folk. Quanto a me, avevo un nonno cantante d’opera e mio zio suonava il piano jazz in un gruppo boogie woogie. Io ho cominciato come soprano nel coro della chiesa; poi ascoltai il rock’n’roll e pensai che era arrivata la rivoluzione. Siamo così uniti, oggi, che quando qualcuno di noi sta male facciamo in modo che nessuno se ne accorga. Otto anni fa, alla vigilia di un tour, Steve Morse si fratturò il polso in un incidente motociclistico. Si presentò all’appuntamento con la mano ingessata: poteva arpeggiare con le dita ma non eseguire gli assoli. Si arrangiò tagliando un pezzo dell’ingessatura e noi lo ‘coprimmo’ dando più spazio agli assoli di tastiere. Un’altra volta, e sempre alla vigilia di un un tour, Ian Paice venne colpito da un dolorosissimo attacco di calcoli al fegato. Ed eccolo seduto alla batteria, il giorno dopo, a pisciare sangue da un tubicino. Nessuno ne aveva idea, a parte noi. Quando ho sofferto di problemi alle corde vocali gli altri mi hanno detto di non preoccuparmi: abbiamo cambiato la scaletta inserendo pezzi più facili da cantare e ce la siamo cavata anche quella volta. Siamo come fratelli, ci prendiamo cura uno dell’altro”.

“One eye to Morocco”, che esce domani nei negozi, suona ovviamente diverso dai Purple: molto più blues, molto più funky, e quasi privo di assoli di chitarra (nonostante la presenza di Morse in due brani). “Rodney Appleby, il mio bassista, ogni tanto mi prende in giro sostenendo che il blues lo possono suonare solo i neri. Ma sai cosa ti dico? Che ho imparato a memoria la musica di Little Walter e di Lazy Lester, il blues del Delta, quello del Kansas e di Chicago, e penso che dobbiamo smetterla di provare quel senso di colpa. Non più di quanto gli italiani ne debbano provare perché Giulio Cesare schiavizzò gli inglesi! I testi del blues trasmettono emozioni primitive che tutti possono capire: parlano di sesso, di ubriacature, di lamenti per i supposti torti subiti da una donna. Resta il filo conduttore del mio modo di fare musica, insieme al desiderio di raccontare una storia”. E infatti fin dal titolo “One eye to Morocco” suggerisce panorami esotici, viaggi intercontinentali… “E’ una vita che viaggio per il mondo. Sono stato negli Urali, in Mongolia e in Giappone in tempi in cui raggiungere quei paesi era ancora un’avventura. Quando cominciai a scrivere canzoni con Roger Glover (nella band pre-Purple Episode Six, ndr) volevo imitare lo stile di Chuck Berry ma non ne ero in grado. Non avevamo esperienza, non eravamo stati abbastanza on the road, non c’erano aneddoti da raccontare. Poi le cose sono cambiate: ‘Woman from Tokio’ è una canzone che parla del nostro primo viaggio in Giappone, ‘69’ un brano che rievoca i nostri ricordi di quell’anno, quando suonavamo al Marquee, allo Speakeasy e al Paradiso di Amsterdam girando con un van carico di strumenti…Non potevamo scriverlo allora, un pezzo così, i ricordi erano ancora troppo freschi”.

Desideroso di una vacanza dalla famiglia Purple, Gillan per il suo disco solo s’è tenuto stretto il mentore di tanti dischi: il produttore canadese Nick Blagona, presso i cui studi di Toronto è andato a registrare. “Già. Nick è il produttore di ‘Perfect strangers’ e di ‘The house of blue light’. E di ‘Accidentally on purpose’, il disco che ho pubblicato nel 1988 con Roger (Glover). E’ il mio guru, tecnicamente avanti anni luce rispetto a chiunque altro con cui abbia lavorato in vita mia. Aveva perso la vista, ora l’ha recuperata grazie a un trapianto di cornea. Per dieci anni ha lavorato solo con le orecchie, senza poter vedere i cursori del mixer. A dire il vero non li guarda neppure ora che ci vede benissimo… Io sto attento alle sfumature del suono, e nessuno come lui è in grado di curare i piccoli dettagli che fanno la differenza. Non mi piacciono i suoni tronchi, anodini, zuccherosi, voglio che la musica abbia spazio per respirare. Nick sa fare tutto questo, è incredibilmente inventivo. Una volta ha convinto Ian a usare un piccolo altoparlante come microfono per la grancassa: il miglior suono di batteria che abbia mai sentito! Perché cambiare, quando hai a disposizione qualcuno così capace e che ti capisce perfettamente? Abbiamo lavorato in modo tradizionale: scrivendo le canzoni, provandole e riprovandole con i musicisti fino a trovare la chiave interpretativa adatta, il tempo, l’atmosfera e le dinamiche giuste. Poi ci siamo trasferiti in studio, a registrarle esattamente nello stesso modo. Come faceva Frank Sinatra, come facevano i Beatles con due o quattro piste a disposizione. L’80 per cento del disco è venuto fuori così, interamente dal vivo. Non ci sono click a dare il tempo. E non ci sono assoli di chitarra, è vero: volevo che il chitarrista (Michael Lee Jackson) si preoccupasse soprattutto di dare un contributo melodico. E come batterista (Howard Wilson) ho voluto un Ringo Starr, uno capace di tenere il tempo. Non si tratta di essere degli scienziati, ma ci vuole molta esperienza per far funzionare le cose in questo modo. Nick ha lavorato con Tom Jones e Dusty Springfield, sa come ottenere certi risultati”.

Come farà Gillan a portare in tour il suo amato album, con il poco tempo a disposizione che gli lasciano i Deep Purple? “Tutto sta nel trovare due o tre mesi liberi per provare le canzoni con la band di sette elementi e i tre coristi che vorrei portare con me: tre voci maschili fantastiche, in grado di armonizzare come facevano i Jordaneries con Elvis Presley…Mi piacerebbe che sul palco ci fossero anche dei ballerini. Perché, come mi disse una volta Roger Glover, un disco non è buono se non lo puoi anche ballare. Non puoi apprezzarla solo cerebralmente, la musica, qualche parte del corpo deve mettersi in movimento. Finita una seduta fotografica con Tommaso Mei, qui a Milano, ho messo su ‘One eye to Morocco’. E’ stato uno spettacolo vedere tutti ballare, la stylist, la truccatrice e la parrucchiera. Missione compiuta!”.

Chi, del resto, non ha mai mosso il piedino o imbracciato una immaginaria air guitar ascoltando il riff di “Smoke on the water”: tuttora, da recenti sondaggi, il più amato dal popolo rock. “A essere sinceri, con la sua genesi io c’entro molto poco. Era Blackmore il maestro dei riff e quella è una frase molto semplice di derivazione blues; la stessa sequenza di note con qualche variazione di tempo e di accenti. Non sarebbe neppure finita su ‘Machine head’, non fosse stato per l’incendio a Montreux. La inserimmo come un riempitivo, solo quando cominciammo a suonarla dal vivo capimmo dalla reazione del pubblico che si trattava di un brano speciale. Fu un direttore artistico della casa discografica, a Los Angeles, a convincerci che avevamo un hit in mano. Si trattava solo, ci disse, di accorciare la durata del pezzo per adattarla al formato del 45 giri: ecco un discografico che sapeva fare il suo mestiere. Per me quella canzone è come un puledro, una motocicletta parcheggiata fuori casa che posso cavalcare ogni volta che lo desidero. Quando Luciano Pavarotti mi telefonò a casa per propormi di cantare con lui a Modena mi disse che voleva fare ‘Smoke on the water’. Io replicai che preferivo fare ‘Nessun dorma’, e così andarono le cose. Ma una sera, a cena, mi confidò di essere molto invidioso di me perché ogni volta che cantavo quel pezzo potevo cambiare tempo, fraseggio e intonazione. Lo facessi io con un’aria classica, mi spiegò sospirando, verrei crocifisso sul posto…Ecco cosa vuol dire, la libertà del rock’n’roll!”.

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