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[ARTE]Giotto A Bologna

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GRANDI MAESTRI

Giotto a Bologna

Una mostra ricostruisce la storia della presenza di Giotto a Bologna, chiamato da Bertrando del Poggetto ad affrescare la "Cappella magna", la chiesa del papa, così come lo scultore pisano Giovanni di Balduccio per il polittico marmoreo della chiesa, artisti ed artigiani francesi, toscani

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Bologna - L'esilio dei papi ad Avignone durò 68 anni (1309-1377). Anche se i due primi papi della "cattività avignonese", Clemente V e Giovanni XXII (francesi come i cinque che seguirono), tentarono di riportare subito la sede del papato a Roma. Quasi nessuno sa che fu Bologna la città che doveva ospitare papa e curia come sede intermedia perché Roma era campo di battaglia fra le cosiddette grandi famiglie. Che per far questo il cardinale legato di Giovanni XXII, suo nipote Bertrando del Poggetto (Bertrand du Pouget), fu inviato a Bologna, a preparare la città, a renderla degna di una tale funzione e a diventare la capitale di una stato guelfo senza ad ogni modo far trapelare subito il grande disegno. Una vicenda misconosciuta (e rimossa), con tanti aspetti da chiarire, ora "portata alla luce" quasi come un reperto archeologico, da questa mostra aperta fino al 28 marzo al Museo civico medievale di Bologna.

Dal 1327 Bertrando cominciò a trasformare la città, con grandi progetti urbanistici, migliorando le fortificazioni, le vie di comunicazione. Fece selciare le strade, le due piazze principali, ricostruì tutti i ponti dentro le mura, il porto sul Reno, avviò un processo di bonifica (che comprendeva pulizia e igiene). Fece lavori alla cattedrale di San Pietro e al vescovado diventato il centro della macchina burocratica e la sede del governo signorile. E alla porta Galliera della città, in faccia a quel Nord che rappresentava l'impero, fece costruire il castello destinato ad accogliere il papa nel palazzo e a difenderlo con le mura. Per sé acquistò il palazzo di un grande banchiere (e usuraio).

Per far questo Bertrando chiamò a Bologna i grandi artisti del momento: Giotto, il maestro, ad affrescare la "Cappella magna", la chiesa del papa, lo scultore pisano Giovanni di Balduccio per il polittico marmoreo della chiesa, artisti ed artigiani francesi, toscani a lavorare con gli artisti bolognesi che ne ebbero una scossa, nell'aggiornamento artistico e ancora più nell'organizzazione del lavoro. Miniaturisti, orafi, specialisti del lusso. Perché questi grandi lavori, committenti e artisti, la corte di alti prelati e funzionari quasi tutti francesi, produssero altri lavori e occasioni. E infatti la mostra si intitola "Giotto e le arti a Bologna al tempo di Bertrando del Poggetto". I curatori, Massimo Medica e Giancarlo Benevolo (catalogo Silvana Editoriale), hanno riunito quella che si definisce una mostra preziosa anche se di non grandi dimensioni (una quarantina di "pezzi"). Fra dipinti e sculture rare, oreficerie, reliquari, avori, oggetti liturgici (come la mitria detta di Sant'Isidoro ricoperta di perle e pietre preziose), e un lungo campionario di capolavori miniati. Quanto era necessario per far emergere una storia dimenticata ed affascinante.

Nel 1332 Bertrando annunciò dunque la grande notizia, il ritorno del papa in Italia, anzi l'arrivo del papa nel castello di Galliera nel quale l'avrebbe preceduto lo stesso legato e la corte. Il che vuol dire che in quell'anno il castello se non era ultimato doveva essere un bel pezzo avanti e in grado di essere decorato. Un'impresa condotta in un paio d'anni, a velocità supersonica, che varrebbe la pena di conoscere e di cui invece si sa molto poco tranne che i lavori si svolsero sotto la responsabilità di un domenicano. "Magnificenza e ricchezza" si possono solo immaginare.

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Ma Bertrando aveva lavorato come un katerpillar anche sulle istituzioni comunali della città. Nel 1333 con i nuovi statuti Bertrando aveva di fatto schiacciato l'autonomia comunale, creando un governo autoritario. Non aveva letto bene quella parola che campeggia nell'emblema della città: "Libertas". Fu il suo grande errore. Ancora più grande di aver vessato i bolognesi aumentando tasse ed estimi per finanziare l'impresa insieme agli scudi provenienti da Avignone e le prebende delle città di Romagna conquistate (almeno 752.624 fiorini d'oro forniti dai vari banchieri di fiducia del papa), più di aver fatto aumentare a dismisura il costo della vita. Fu così che il grande sogno di Giovanni XXII e Bertrando, e la grande occasione storica di Bologna sede del papa (e sede dello "Studium", l'università già celebre in Europa), con prospettive inimmaginabili, svanirono. Nella rivolta: nel sangue, nel ludibrio e nel saccheggio per la corte, nella fuga protetta per Bertrando. E nel marzo 1334 il castello di Galliera, il simbolo odiato dell'occupazione, fu distrutto (ma non raso al suolo), gli oggetti preziosi divisi fra i rivoltosi, le opere tolte dai luoghi per i quali erano state concepite e distribuite fra le chiese bolognesi.

E gli affreschi di Giotto? Non abbiamo notizie sul tema o i temi illustrati e sull'estensione dei dipinti che probabilmente erano anche nell'abside e interessavano più ambienti. Probabilmente erano dedicati alla Vergine Maria come farebbero pensare il polittico di marmo con al centro "Nostra Donna" e le due statuette con l'"Annunciazione" poste all'ingresso della chiesa, ugualmente opera di Giovanni di Balduccio. Ad ogni modo, ancora all'inizio del Quattrocento, come scrive G. Ronco nel "Compendio della storia di Bologna", la "cappella magna" era ben visibile con gli affreschi dipinti "de mano di M° Zoto depintore". La rocca di Galliera era stata infatti ricostruita nel 1403 dal legato pontificio Baldassarre Cossa. Non fu l'unica volta. Per farla corta, nel maggio 1511 i bolognesi abbatterono per la quinta volta la rocca che era stata ricostruita da Giulio II. Alla fine del Cinquecento erano ancora visibili i resti del castello e, purtroppo, i resti della cappella. P. Lamo scrive che a porta Galliera "A l'entrare a man sinistra v'è restato nel dirupamento de la muraglia un pecio de una volta che era dipinta di man di Giotto e ora se vede 4 figure a fresco, belle per quela maniera e si sono molto be(n) conservate". Valeva la pena mettere al riparo le quattro figure di Giotto, ma probabilmente il maestro è stato travolto dal significato di simbolo dell'oppressione straniera che il castello aveva per i bolognesi. Non abbiamo alcuna notizia sulla completa perdita degli affreschi che potrebbero essere stati lasciati alle intemperie. Nella guida del Touring si ricordano i pochi ruderi sopravvissuti del "famoso castello o cittadella di Galliera".

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Il riferimento più antico all'attività bolognese di Giotto - come ci ricorda Massimo Medica - è quello contenuto nel commento alla "Divina Commedia" di Anonimo fiorentino, non lontano dai fatti riferiti perché è datato alla fine del Trecento e per alcuni alla prima metà del Trecento, e che dà l'impressione di avere fonti di prima mano.

Nonostante questi riferimenti la presenza a Bologna di Giotto non è pacifica per tutti gli storici dell'arte anche se - nota ancora Massimo Medica - è una "ipotesi più volte ventilata che di recente ha avuto un suo nuovo e giustificato rilancio, basato su una serie di indiscutilibili indizi". La perplessità nasce dalla difficoltà di inserire l'attività di Giotto a Bologna fra l'intenso periodo napoletano al servizio di Roberto d'Angiò e la conclusione della carriera e della vita a Firenze nel dicembre 1337.

Il primo "paletto" per questo inserimento è l'anno dal quale la "cappella magna" era pronta per essere affrescata o per ricevere le altre opere previste, come le sculture di Giovanni di Balduccio, e cioè la fine del 1332 quando Bertrando si trasferì nella rocca di Galliera. Un secondo "paletto" è l'inizio della rivolta a Bologna, marzo 1334. A Napoli Giotto risulta documentato dal 1328 al 1332-1333, in "moltissime e impegnative commissioni" a Santa Chiara e soprattutto nel Castel Nuovo.

Una mole di lavoro (di cui sopravvivono solo pochi affreschi a Castel Nuovo) che Giotto portò a compimento grazie ad una "efficiente e collaudata bottega, formata si direbbe da artisti di estrazione diversa, anche locali, in grado di operare contemporaneamente in diversi cantieri". Anche per l'esecuzione di tavole, anche per alcune che rientrano nella tarda attività fiorentina. Anche in assenza del maestro, responsabile del progetto e di una esecuzione armonica, secondo i dettami del suo stile. Per certe imprese pittoriche, di fronte alla nostra presunzione moderna di autografia di un artista dovremo sempre più abituarci alla definizione estremamente azzeccata di "autografia di cantiere".

A questo punto la presenza di Giotto a Bologna potrebbe essere collocata intorno al 1332-33. In questi anni ci sono ben sei pagamenti relativi agli affreschi di Castel Nuovo, ma "non si è affatto sicuri che tutti i compensi abbiano avuto come destinatario lo stesso Giotto". Viceversa Giotto era sicuramente a Napoli nel 1332 perché Roberto d'Angiò non solo gli passava un vitalizio, ma gli pagava il guardaroba. Nel 1335 circa, secondo quanto riporta Giovanni Villani, Giotto sarebbe stato inviato dal Comune di Firenze al servizio di Azzone Visconti, signore di Milano.

Una serie di incertezze circonda anche il polittico bolognese di Giotto che è in mostra ed è conservato nella Pinacoteca. Per esempio, la sua tradizionale collocazione nella piccola chiesa di Santa Maria degli Angeli (esattamente "dell'Angelo") quale commissione di Gerra Pepoli, come attestato dal 1732. Dove venne realizzato. Se a Bologna dalla bottega che Giotto si era portato dietro per affrontare presto e bene l'impresa degli affreschi nella cappella. Bertrando doveva avere certamente fretta di preparare la sede per il papa che aspettava in Avignone. Un polittico su tavola era più complicato da fare sul posto dove non c'erano maestranze (non solo pittori, ma maestri di legname, "battiloro") in grado di preparare tavole perfettamente levigate, cornici. E allora torna l'ipotesi che anche questo polittico sia uscito dalla bottega attrezzata e polivalente che Giotto aveva organizzato a Napoli, o a Firenze come fanno pensare opere contemporanee e "affini" al polittico.

Il polittico, come conferma la qualità della pittura, l'"impegno figurativo e la stupefacente sontuosità", è "il frutto di una importantissima commissione" , in linea con "gusti coltissimi". Gusti in grado di apprezzare "il garbo elegante e quasi profano, da gran signora" della Madonna "assisa su di un solidissimo trono, che rappresenta 'l'architettura più connotata in senso gotico fra quelle dipinte da Giotto'". Per Luciano Bellosi il dipinto, che è firmato da Giotto, ha "piena autografia giottesca" a differenza dell'opinione prevalente che, nonostante la firma, lo considera "per lo più frutto di un intervento della bottega" nonostante la grande considerazione di Roberto Longhi, Pietro Toesca, Cesare Gnudi.

C'è da rilevare "non poche particolarità" da punto di vista delle soluzioni tecniche, come il ricco uso delle decorazioni punzonate che hanno una "varietà e una eleganza che non ha pari" nella contemporanea produzione di Giotto come la "Madonna" di Ricorboli ugualmente in mostra. Secondo Medica, qui Giotto cerca di adeguarsi alle più moderne pratiche della pittura senese, di Simone Martini. Nonostante il gran nome di Giotto l'opera venne spostata in epoca imprecisata dall'altare maggiore della chiesa di Santa Maria degli Angeli, alla sacrestia, e sostituita dalla tela di un Bartolomeo Marescotti, allievo di Guido Reni.

Al centro la Madonna in trono col Bambino, ai lati, a figura intera, gli Arcangeli Gabriele e Michele, San Pietro (che ha grosse chiavi in mano e impugna la ferula, un'asta che termina con una Croce, antico simbolo del potere del papa quando prendeva possesso della prima basilica romana, il Laterano), e San Paolo che si appoggia elegantemente ad una spada dal fodero bianco. Altri cinque personaggi sono raffigurati nei busti rotondi della cimasa. La lunghezza è di 2,17 metri, l'altezza 1,46.

L'ampio e studiato panneggio del manto della Madonna - osserva Bellosi - "è reso con grande maestria attraverso l'uso dosato e sapiente dei colori, giocati sui toni del blu, a rivelare un modellato che si fa qui morbido e 'lanoso'". Nella "bellissima predella" le "sperimentazioni e le invenzioni del pittore raggiungono, anche dal punto di vista espressivo, livelli davvero alti, resi ancora più evidenti dalla qualità smaltata delle cromie, impreziosite talvolta da cangiantismi". Alcune figure della predella potrebbero essere opera di un artista denominato Pseudo Dalmasio, il più "giottesco" dei pittori bolognesi del momento.

In mostra, restaurata per l'occasione, c'è anche un'altra opera di Giotto (e bottega) dipinta nel 1334-36, la "Madonna col Bambino e quattro angeli" dalla chiesa fiorentina di Ricorboli, arrivata largamente frammentaria, con una superficie pittorica "generalmente consunta e, in molte parti, abrasa". In origine doveva essere la parte centrale di un trittico o polittico di dimensioni contenute. Nella scheda in catalogo, Angelo Tartuferi osserva che non mancano "alcuni vertici di raffinatezza esecutiva, quali la tenerezza pittorica del volto del Bambino, oppure la mano sinistra della Madonna, che avvicinano l'opera al timbro quasi lussuoso e profano del polittico di Bologna".

Anche il grande polittico in marmo di Carrara di Giovanni di Balduccio, il secondo pezzo forte di questa storia e il primo (effettivo) di questa mostra, doveva esprimere un carattere di sontuosità tanto che si riteneva fosse di alabastro. Con l'aggiunta della vivacità delle paste vitree incastonate lungo i bordi della predella e le dorature delle statue a figura intera. Secondo la descrizione dell'altare fatta da Giorgio Vasari nell'edizione 1568 delle "Vite" (che lo attribuiva a Giovanni Pisano), il polittico aveva al centro "la Nostra Donna ed altre otto figure assai ragionevoli" , compresi due angeli reggicortina. I personaggi sono scolpiti come statuette autonome entro edicole con cuspide a loro volta con figure di profeti. Gli anni di realizzazione vengono indicati fra il 1332 e il '34, il periodo in cui anche Giotto operava nella cappella. I due artisti si erano trovati a lavorare insieme, pochi anni prima, nella cappella Baroncelli a Santa Croce a Firenze. Dopo l'assalto al castello l'opera fu trasferita nella chiesa di San Domenico dove rimase fino al 1605 quando fu definitivamente dispersa.

Del polittico a noi sono arrivati pochi pezzi, sei, di cui quattro in mostra. Manca purtroppo l'"elegantissima Madonna col Bambino" dalla "qualità quasi eburnea dell'intaglio nonché la raffinatezza della figura, di gusto quasi francese". L'Institute of Arts di Detroit non l'ha concessa. Manca anche la formella con la Natività, unica parte superstite della predella (in collezione privata italiana). Meglio dire subito le brutte notizie. Sono invece in mostra le statuette (alte 59-60, 5 centimetri) di San Pietro Martire (che appartiene al Museo civico medievale di Bologna), San Petronio (dal Museo della basilica di Santo Stefano sempre a Bologna), San Domenico (dal Museo Grobet-Labadie di Marsiglia), e la cuspide triangolare quasi completa (33 per 17,5 centimetri) con il Profeta Baruch (dalla Pinacoteca civica di Faenza). Questi quattro personaggi hanno gli occhi di taglio allungato, con inserimento di piombo nelle iridi, gli zigomi di particolare forma. Il marmo è fortemente levigato. Il nome Baruch scolpito in un cartiglio ha tracce di colori.

Il San Petronio santo protettore di Bologna, con tanto di pastorale e di modellino della città, entrambi dorati, ha la dalmatica "riccamente decorata con un finissimo lavoro di bulino" che si ripete nella mitria e nella barba minutamente lavorata. Delle tre è l'unica statua lasciata grezza sul retro. San Petronio doveva essere in realtà San Nicola (senza pastorale e modellino) come si ricava da alcuni caratteri di una iscrizione raschiata sul piedistallo.

Lo Pseudo Dalmasio torna in mostra con la piccola tavola (46,6 per 30,4 centimetri) "Madonna col Bambino con un cane", curiosa proprio per quel cucciolo tenuto rudemente da un paffuto Bambino, che è una iconografia insolita. Ci sono spesso gli uccellini, ma il cane è raro. Il riferimento potrebbe essere ai domenicani che sono conosciuti come i "cani da guardia del Signore", i guardiani dell'ortodossia. In un precedente restauro una parte del fondo oro è stata ridorata in modo da nascondere la corona a tre punte della Vergine, altro aspetto di rarità in una tavola di piccole dimensioni. Un successivo restauro ha rimesso in luce la corona.

La tavola (dal Museo di arte di Philadelphia), doveva essere il lato sinistro di un dittico come si ricava da vecchi chiodi visibili ai raggi X (per i cardini) e dal fatto che sia dipinta su entrambi i lati (sul retro i resti di una pittura color porfido con motivo geometrico).

Anche la "Crocifissione fra le Marie" dello stesso Pseudo Dalmasio doveva essere il pannello di un polittico come appare dalla cuspide. La Croce è in forma di albero (l'albero della vita) con in cima un pellicano (simbolo della resurrezione). Ai lati della Croce, invece dei tradizionali angeli, ci sono Mosè e Isaia (simboli dell'Incarnazione).

La "tendenza più gotica e ornata dell'arte bolognese e l'attrazione stilistica verso la rarefatta atmosfera di una corte francese" è rappresentata in mostra dalla tavola di Vitale da Bologna (Vitale degli Equi) "Incoronazione della Vergine" databile alla metà circa del Trecento e proveniente dal Louvre. Lo sfondo spettacolare della scena è il grande panno foderato di pelliccia di vaio (scoiattolo) e ricamatissimo che retto da tre angeli sorridenti scende fino alla base della composizione.

Preziosità fra le preziosità della mostra sono i polittici e dittici in avorio e le miniature. Polittici o dittici di avorio intagliato o scolpito, "policromato", ma qui le dimensioni sono di pochi centimetri (9-18 per 14-15 e con gli sportelli aperti). Sono ideali come altaroli portatili, per la devozione privata. Sono di manifattura parigina o della Francia orientale, perché Parigi sembra "detenere incontrastata non solo il primato, ma addirittura il monopolio" europeo in questo settore, dalla metà del Duecento agli anni Ottanta del Trecento. Già alla metà del Duecento si può parlare "di una 'proto-industrià artistica di serie" con un rigido controllo delle autorità sui processi produttivi. I tipi e le soluzioni iconografiche erano "standardizzate e riprodotte in decine, se non centinaia di esemplari". Con la vastissima diffusione erano uno degli strumenti principali per aggiornare gli scultori europei sulle novità stilistiche e di iconografia del gotico francese (come risulta dalle statuette in mostra di Giovanni di Balduccio). Con una corte come quella di Bertrando a Bologna, composta in grande maggioranza di personaggi francesi, sono ideali per illustrare il gusto di un'epoca e di un ambiente.

Come sono ideali per rendere l'universo bolognese dei miniatori e illustratori i codici e corali, codici giuridici e teologici, documenti, Bibbie e messali, libri (il libro a Bologna era re, come ricorda Enrico Castelnuovo). Un universo stimolato soprattutto dallo "Studium", dall'"arte del lusso" francese e gotica, da Bertrando e la sua corte, dal Giotto della Cappella degli Scrovegni. Opere di artisti di valore assoluto come il cosiddetto Maestro del B.18, il Maestro del 1328, l'Illustratore ("per l'aspetto esuberante delle sue composizioni", che, come osserva Longhi, trattava i testi giuridici come romanzi cavallereschi o novelle popolari ).

Ma l'avventura di Bertrando a Bologna non può finire fra i colori vivaci e le scene raffinate delle miniature, ma piuttosto fra le urla di terrore e morte di un assedio e di una resa. La distruzione del castello di Galliera e la rimozione dalla memoria storica di Bologna della signoria di Bertrando hanno impedito di avere precise descrizioni dell'edificio.

Secondo i prototipi esistenti aveva mura quadrangolari intervallate da un buon numero di torrioni (forse otto, necessari dal punto di vista militare e sempre impressionanti), e circondate da un fossato. Una parte del castello si estendeva oltre le mura della città, e la parte principale col palazzo destinato al papa, entro le mura. Fra le due porzioni era stato deviato il fiume Reno per mezzo di un canale. Il castello era dotato anche di un orto, di alberi da frutta, di un forno e di stalle.

Fuori del castello Bertrando scelse le abitazioni per i cardinali, i vescovi, gli alti prelati, la curia ed anche per se stesso, ma quando la situazione in città divenne insostenibile per la durezza del suo governo, per il timore dell'instaurazione di una signoria, tutti si rifugiarono nella rocca di Galliera. E il 17 marzo 1334 scoppiò la rivolta aperta, al grido di "Muoia il legato e tutti i quercinesi" (da Quercy, la città natale di Bertrando) e "quelli di Linguadoca" (da dove veniva la maggior parte dei francesi). Chi era rimasto in città fu braccato. Il maresciallo delle truppe papali torturato e ucciso. Un "familiare" del vescovo di Cesena "fu massacrato dalla folla e le sue membra vennero date in pasto ai cani".

Quanto al castello di Galliera il canale fu bloccato per privare gli assediati di acqua e secondo la "Cronica" dell'Anonimo romano, probabilmente uno studente di medicina, di poco posteriore ai fatti, "li Bolognesi traboccavano lo sterco dentro dello castiello e valestravano". Dopo 11 giorni di assedio e di tentativi di mediazione da parte dei capi della rivolta (si trattava pur sempre del legato del papa) e della guelfa Firenze, il 28 marzo il solo Bertrando con seguito e beni, ottenne di lasciare il castello. Protetto dai soldati fiorentini, Bertrando dovette passare fra due ali di folla che non lo risparmiarono: "tutto lo popolo de Bologna li gridava e facevanolli le ficora e dicevanoli villania. Le peccatrice li facevano le ficora... bene se aizavano li panni dereto e mostravanolli lo primo delli Decretali e lo sesto delle Clementine".

Il peggio avvenne dentro il castello: prelati canuti o rubicondi, funzionari, vescovi, arcidiaconi, canonici, donzelli, furono denudati, picchiati, derubati, alcuni uccisi; qualcuno riuscì a scappare dalle mura calandosi con funi. La rocca fu saccheggiata in tutto quello che era asportabile: "codici, argenterie, avori, oreficerie, masserizie, cavalli, armi, armamenti, letti ('il solo vescovo di Bologna ne aveva settanta, trenta dè quali erano bellissimi e buoni'), ricchi abiti foderati di vaio, mantelli, cinture" come è elencato nella bolla con cui papa Clemente VI tentò di avere qualche risarcimento. Nei giorni successivi la rocca fu distrutta, tranne la "cappella magna" le cui opere d'arte furono divise fra le chiese di Bologna. Nel 1335 papa Benedetto XII cominciò a far costruire il grande Palazzo dei papi ad Avignone.

(Goffredo Silvestri)

Notizie utili - "Giotto e le arti a Bologna al tempo di Bertrando del Poggetto". Dal 3 dicembre 2005 al 28 marzo. Bologna. Museo civico medievale, Palazzo Ghisilardi, via Manzoni 4. A cura di Massimo Medica e Giancarlo Benevolo. Comitato scientifico internazionale. Promossa dal Comune di Bologna e dai Musei civici d'arte antica. Catalogo Silvana Editoriale.

Orari: da martedì a sabato ore 9 -18,30; domenica e festivi infrasettimanali ore 10 -18,30; chiuso lunedì feriale.

Biglietti: intero 6 euro, ridotto 3. Il biglietto dà diritto all'ingresso anche al museo.

Visite guidate alla mostra e itinerari guidati in città, per approfondire la cultura figurativa nel Trecento bolognese.

Per informazioni e prenotazioni: Laboratorio delle Idee (051-4211888).

Biglietteria museo: 051-2193916 - 2193930

(17 gennaio 2006)

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