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L’eredità Del Reggae

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IN TOUR IN ITALIA DAMIAN «JR. GONG», FIGLIO MINORE DEL MITICO BOB E CONSIDERATO IL VERO EREDE SPIRITUALE E MUSICALE

L’eredità del reggae

23/3/2006 di Franco Giubilei

MODENA. Nel nome del reggae, del rasta e di papà Bob Marley, di cui nel suo sito internet tiene bene in vista un’immagine benedicente, ecco il mini-tour italiano di Damian Marley, il più giovane della nidiata del leggendario musicista giamaicano: Damian suonerà al Vox di Nonantola domani sera e sabato sarà a Roma, a perpetuare la tradizione di un genere che non è semplicemente ritmi in levare e sonorità nero-caraibiche, ma filosofia di vita e anche lotta politica nell’originaria Giamaica. I reggae-men, con i loro dreadlocks chilometrici, i copricapo a strisce rosso-giallo-verdi e quella scia di marijuana che da sempre li avvolge e li segue, dondolano la loro musica vagheggiando un ritorno a madre Africa, loro che discendono dagli schiavi portati in catene nelle Americhe da qualche secolo. Damian, come si diceva, dei figli del grande Bob è il più piccolo: nasce nel 1978 a Kingston dalla relazione fra Marley senior e Cindy Breakspeare, che nel ’76 era stata eletta Miss Mondo.

Con tanto padre e con altri fratelli già sulla stessa via, anche il piccolo “Junior Gong”, com’è soprannominato il piccolo, ha la strada già segnata dal reggae. A 13 anni fonda il primo gruppo, gli Shepherds, insieme ad altri figli d’arte come Shiah Coore e Yashema McGregor, cominciando una gavetta che di lì a poco lo porterà al primo album «Mr. Marley». Collabora con lui il fratello Stephen, ma è con il secondo disco «Halfway Tree» che Damian conferma una vena che lo guida sui sentieri paterni.

L’album si aggiudica anche un premio «grammy» come miglior lavoro reggae. Fin dalla prima opera comunque è già chiara una vocazione a quel frutto degli anni ottanta e novanta che è la contaminazione fra generi, con innesti di suoni dance e influenze hip-hop sul caldo tappeto ritmico in levare che è la vera ossatura del reggae. Non mancano gli omaggi espliciti al padre, e ci mancherebbe altro. Nel 1997, insieme al fratello Julian, vola negli Usa a suonare al festival rock Lollapalooza, esperienza che gli vale un buon contatto con platee non proprio abituate alla musica black di matrice giamaicana.

Il disco “Half way three”, che gli era valso il grammy, viene però attaccato dalla critica dura e pura che gli rimprovera di tradire le origini, di allontanarsi troppo dalla vera cultura reggae. Damian però non arretra di un centimetro e cita a sua difesa sua maestà Bob, ricordando come un brano dell’impatto di «Could you be loved», con cui il paparino aveva fatto ballare tutto San Siro durante il suo celebre tour italiano, in realtà rivelasse che anche Marley senior batteva tracciati musicali tesi a incrociare e a fondersi con altre sonorità.

Quanto ai testi, «Half way three» resta fedele ai toni di denuncia del reggae impegnato a partire proprio dal titolo, che è anche il nome della strada che a Kingston corre come frontiera fra i quartieri ricchi e il ghetto. Quindi nessun problema a «sporcarsi le mani» con l’hip-hop, definito da «Junior Gong» «una musica nata dalla reggae music accomunata a quest’ultima dall’essere fatta dalla gente per la gente». E siccome il reggae va di pari passo con la fede, lo stesso Damian richiama in causa Bob per spiegare il suo personale rapporto con Dio: «Una delle cose più preziose che ci ha insegnato nostro padre è quella di essere sempre vicino all’Altissimo. E’ la stessa missione ed è una cosa del tutto naturale». Nessun complesso di inferiorità dunque, ma nuovi successi in musica con la conquista del secondo Reggae Grammy Award col disco «Welcome to jamrock», e una collaborazione con Alicia Keys allo special unplugged di Mtv. Un altro riconoscimento gli arriva nella categoria r&b, poi sono i negozi di dischi (sarà l’album di reggae più venduto nel 2005) a sancire il successo di Damian.

«Questa è musica di strada, e le strade devono sentirlo», commenta il diretto interessato. E’ musica meticcia, zeppa di rimandi e suggestioni da altri generi, che lo riscatta dall’ingrato destino di essere identificato a vita come «il figlio di Bob Marley».

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