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Così Linux Si Fa Strada In Palm E Google

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Così Linux si fa strada in Palm e Google

di Bernardo Parrella

L'open source fa passi avanti: Access Linux Platform entra nei palmari, mentre il motore di ricerca continua a investire sul codice liberamente utilizzabile

.Talvolta il ricorso o il contributo all’open source in aziende di grande risonanza merita una certa attenzione. Non tanto per fare i soliti, grossi nomi quanto soprattutto per confermare il successo del sistema alternativo ad alto livello e ribadirne la funzione di apripista per ulteriori penetrazioni in ambiti anche diversi dall’informatica. Ecco dunque la messa a fuoco su due importanti contesti d’attualità: dal settore bollente dei palmari multiuso, la notizia per la scelta della Access Linux Platform (ALP) come futuro sistema operativo di PalmSource, mentre Google prosegue nel coinvolgimento a vari livelli con gli sviluppatori open source.

Nel primo caso, il futuro del Palm è Linux: lo conferma la decisione di PalmSource di fare (finalmente) il grande passo verso il sistema “puro Linux”, annunciando che la ALP sarà pronta entro fine anno e potrà funzionare sui relativi palmari a partire dal 2007. Da ormai un anno girava la voce del passaggio di PalmOS 6.0, meglio noto come Cobalt, al kernel Linux. Era tuttavia intervenuto un successivo cambiamento di strategia, che lo scorso maggio è costato improvvisamente il posto al Ceo Dave Nagel. Per quanto sofferta, soprattutto per gli sviluppatori al lavoro, la decisione è la prima mossa positiva di PalmSource dopo molti mesi di stallo. PalmSource si occupa dello sviluppo di PalmOS ed è stata recentemente acquistata per 324 milioni di dollari dalla giapponese Access, che all’ultimo momento ha rintuzzato gli attacchi di Motorola. Nel frattempo l’ex azienda-madre Palm, dopo la scissione del 2003 divenuta hardware partner, ha iniziato a produrre i telefoni Treo multiuso basati su Windows Mobile, cedendo alla domanda della clientela in tal senso, pur non avendo alcuna intenzione di abbandonare lo storico PalmOS. Da notare altresì che Palm ha anche firmato un accordo per consentire agli utenti dei Treo di controllare l’email collegandosi direttamente ai server di Research In Motion, società Usa produttrice dei noti BlackBerry, che da parte sua sta rischiando grosso per la guerra dei brevetti attualmente in corso contro NTP.

Il salto decisivo verso la ALP è proprio il frutto del passaggio nella scuderia di Access: il nuovo sistema è basato su Linux 2.6.12, usa una versione ottimizzata del toolkit Gtk, con un occhio di riguardo per l’architettura della sicurezza, e includerà anche altre tecnologie open source.«Sarà in grande parte un sistema nuovo e rappresenta sicuramente l’evoluzione successiva del Palm OS su Linux», ha spiegato Albert Chu, uno dei vice-presidenti di PalmSource, ribadendo comunque che «l’azienda non ha alcuna intenzione di abbandonare gli utenti non-Linux». Nonostante altri nomi abbiano fallito nell’adattamento del pinguino a questi dispositivi mobili, Motorola in primis, Didier Diaz, nuovo manager di PalmSource, appare più che fiducioso: «Il Linux di Motorola non era poi così open, mentre noi abbiamo aperto completamente le nostre Application Program Interface».

Altro grosso nome attivo nel giro open source è Google superstar, fatto tutt’altro che nuovo ma scarsamente esplorato, con una serie di progetti raggruppati su code.google.com. Di cosa si tratta? «Intanto cerchiamo di mettere a punto dei continue patch e migliorare i pacchetti già attivi, poi sia all’interno di Google che in team al di fuori si sta lavorando a migliorare GCC nonché a diffondere iniziative varie. Insomma, produciamo sempre e sempre più codice». Questa la replica di Chris DiBona, attualmente manager di quest’area per Google, nonché co-curatore di Open Sources 2.0, ottima antologia sulle prospettive a tutto campo del software (e del modello) aperto di recente uscita in Usa presso O’Reilly. Tale codice viene generalmente rilasciato sotto la licenza BSD (Berkeley Software Distribution), ma talvolta anche con la LGPL (GNU Lesser General Public License) e la ben più diffusa GPL (GNU General Public License); pur se la parola finale sulla licenza più adeguata spetta agli engineer di Google, la «GPL previene i rivenditori di software proprietari dall’uso del codice, per cui non viene scelta spesso», chiarisce DiBona in una intervista appena apparsa sulla rivista inglese Linux Format. Aggiungendo rapidamente che «…siamo più interessati a creare e diffondere codice che alle dispute religiose».

In altri termini, code.google.com. è uno spazio creato appositamente per quei programmatori interessati allo sviluppo di software che non solo possa essere impiegato in qualche modo nell’universo di Google, ma che sia liberamente usabile da tutti. Finora sono stati realizzati e diffusi quattro programmi infrastrutturali, che pur se mirati al target professionale sono stati rilasciati tramite Sourceforge onde raggiungere un pubblico il più ampio possibile. Tali programmi sono altresì in aggiornamento continuo, mentre le altre attività includono la pubblicazione di relazioni e ricerche ad hoc sia online sia su riviste tecno-scientifiche in varie lingue. Il sito offre inoltre gli elenchi aggiornati delle API, elemento sempre importante per le comunità di sviluppo, ed è divenuto il trampolino di lancio per importanti iniziative, come quella avviata negli Stati Uniti lo scorso autunno (e che si prevede di replicare quanto prima in Asia): The Summer of Code, in cui Google ha offerto uno stipendio (4.500 dollari per il programmatore e 500 dollari all’organizzazione che lo assiste) a 400 studenti per la creazione di nuovi progetti open source o per contribuire a quelli già avviati. In attesa di vedere i risultati di questo sforzo, sul sito non mancano infine notizie sulle varie attività a latere in cui è coinvolto il team open source di Google, dalla sponsorizzazione di eventi quale Scale (Southern California Linux Expo) a Los Angeles alla presenza in analoghe manifestazioni nel continente asiatico (vedi GNUnify e Linux Asia in India).

Attenzione però: non esiste speranza alcuna che in futuro Google possa diventare una azienda 100% open source. «Ci sono cose che sono sotto licenza e non aperte al pubblico, o che sarebbe uno spreco rendere open source», spiega ancora Chris DiBona. «Non apriremo mai PageRank (il sistema brevettato per stabilire l’ordine di uscita delle pagine di una ricerca) o cose simili, perché ciò significherebbe portarle alla rovina. Se rilasciamo il codice della funzione di ranking, tutt’un tratto ogni programma scrambler del mondo può stravolgere tranquillamente l’ordine delle pagine e allora ogni ricerca con Google diventa inutile».

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