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De Cataldo: Il Mio Nuovo Libro? Parte Dalla Fine Di Romanzo Criminale

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De Cataldo: «Il mio nuovo libro? Parte dalla fine di Romanzo Criminale»

di Francesco Prisco

Raccontando in modo "poco italiano" l'ascesa e la caduta della Banda della Magliana nella Roma degli anni Settanta e Ottanta, Giancarlo De Cataldo ha lasciato il club degli autori di culto e si è affermato come una delle voci più autorevoli della narrativa contemporanea. Il suo "Romanzo Criminale", pubblicato nel 2002 da Einaudi, ha venduto 200mila copie ed ha fatto da soggetto al fortunato film di Michele Placido che nell'autunno del 2005 ha incassato 4,9 milioni al botteghino. Numeri, ancora una volta, "poco italiani" se consideriamo che l'industria culturale del Bel Paese è ormai abituata ad arrancare dietro ad incentivi ministeriali e produzioni letterarie di cassetta. Un successo editoriale dietro al quale c'è un modello classico apparentemente molto lontano dalle gesta sanguinarie del "Fornaretto" Franco Giuseppucci, del "Crispino" Maurizio Abbatino e di "Renatino" Enrico De Pedis: la Comédie humaine del grande Honoré de Balzac. «Il mio maestro in senso assoluto», rivela lo scrittore 51enne, tarantino di nascita e romano d'adozione, che proprio dall'autore di "Eugénie Grandet" ha appreso «l'arte di raccontare a partire dai "tipi umani"». Un metodo universale di scrittura che funziona anche se, al posto dei popolani delle campagne francesi della prima metà dell'Ottocento, hai come materia di partenza i ragazzi di malavita dell'Urbe, sul finire della Guerra Fredda. De Cataldo, che tra le altre cose è Giudice alla Corte d'Assise di Roma, ha quasi ultimato la sua ultima fatica letteraria, la cui trama «è ancora coperta da segreto». Al massimo si lascia scappare un'anticipazione sibillina: «E' una storia che comincia dove "Romanzo Criminale" finisce». Non si sottrae, poi, ad un atipico "interrogatorio" sul difficile ruolo dello scrittore chiamato a voltare pagina dopo l'opera della consacrazione.

De Cataldo, "Romanzo Criminale" è un punto d'arrivo per la sua produzione narrativa. E' l'opera della piena maturità, la tappa oltre la quale è "atteso al varco" da critica e pubblico. Come si "supera" un libro così ingombrante?

«Con molto sudore... No, scherzi a parte, il nuovo romanzo è pressoché pronto. Quanto al pubblico, il suo giudizio è sovrano. Quanto alla critica, beh, una volta Flaiano disse che in Italia si passa obbligatoriamente da "giovane speranza" a "solito str***o" a "venerato maestro". Temo di essere stato, quando uscì "Romanzo Criminale", già fuori tempo per la giovane speranza. E siccome non sono abbastanza vecchio per essere iscritto alla terza categoria...».

Ha raccontato con un'intonazione che oscilla tra l'epico e il tragico le vicende di quella che qualcuno ha ribattezzato "La peggio gioventù" d'Italia in un libro che ad un lettore miope poteva apparire come una sorta di particolarissimo "noir". Si aspettava tanto consenso da parte dell'opinione pubblica?

«Mah! Sicuramente riponevo molte attese e molta ambizione in "Romanzo"... Anzi, per dirla tutta, avevo giurato a me stesso che, se fosse passato inosservato, avrei smesso di scrivere. Ovviamente, si trattava di promessa che mi sarebbe stato impossibile mantenere. Ma ripetermelo mi dava una certa sicurezza. E ricordare adesso quei momenti di attesa/panico/speranza che accompagnarono l'uscita del libro me ne dà ancora di più».

Lei è magistrato e ha sempre dichiarato di tenere nettamente separata la sua esperienza professionale dall'attività di scrittore. In ciò che scrive, tuttavia, il "De Cataldo giudice" pesa almeno quanto il "De Cataldo scrittore". In "Romanzo Criminale", per esempio, tira fuori delle grandi pagine di letteratura utilizzando il "format" della sentenza. Per non parlare della descrizione dei "tipi" che frequentano i tribunali: dagli avvocati ai giudici, dai periti agli agenti di polizia. Quanto secondo lei il "De Cataldo scrittore" deve al "De Cataldo giudice"?

«Sicuramente lo scrittore deve al giudice la preziosa chance di poter penetrare nel mondo giudiziario, che ospita una galleria davvero completa di quelli che lei ha giustamente definito "i tipi umani". Lavoro molto sui tipi umani, a partire dalle loro caratteristiche fisiche, un po' riallacciandomi agli insegnamenti di Balzac (che, fra l'altro, fu ossessionato dai suoi reiterati problemi con la giustizia!). Quando dico che ambisco a tenere separate le due sfere, in realtà voglio rimarcare l'autonomia di ciascuna di esse rispetto all'altra: non scrivo romanzi come se fossero sentenze, e viceversa. Ne va del rispetto per il lettore, che considero un valore, per me, fondamentale».

Da "Romanzo Criminale" traspare a tratti un senso di aspra critica nei confronti di come in Italia spesso è amministrata la giustizia. Una critica che acquista forza ancora maggiore, se si considera il lavoro che lei quotidianamente svolge. Gli sfoghi del commissario Scialoja, per esempio, sono emblematici. Nella giustizia ci crede?

«Nessun medico le dirà mai "non credo nella medicina". Nessun chierico ammetterà mai, a meno di clamorosi autodafè, di aver smarrita la Fede. Ma tutti i medici e tutti i chierici che si rispettino sanno che è loro preciso dovere interrogarsi di continuo sullo stato dell'arte, sulla tenuta dei principi, sui limiti e sui margini di miglioramento... Non c'è niente di peggio che adagiarsi nella stanca routine del mestiere, anzi, forse qualcosa di peggio c'è: il sentirsi depositari di un sapere immutabile e, soprattutto, incontestabile. Tradotto in prosa: la giustizia è un valore di riferimento dal quale non si può prescindere, un'aspirazione da perseguire, un confine da ricontrattare con un duro esercizio quotidiano, una conquista da difendere dai suoi tanti nemici».

Tornando ai personaggi di "Romanzo Criminale", si sente più commissario Scialoja o giudice Borgia?

«C'è sempre una parte dello scrittore in ognuno dei suoi personaggi, come insegnano tutti i manuali di sceneggiatura. Bachtin, nel suo famoso saggio sul romanzo polifonico in Dostoevskji, l'aveva detto prima e meglio, ma il senso resta lo stesso».

Ha idea di come i pochi "sopravvissuti" della stagione delinquenziale romana degli anni Settanta abbiano percepito "Romanzo Criminale"?

«Un hip-hopper direbbe che c'è stato "massimo rispetto". Il romanzo non giudica, questo è stato compreso».

Ha collaborato al soggetto e alla sceneggiatura del film tratto da "Romanzo Criminale" che, per quanto ben strutturato sul piano del ritmo narrativo, si prende moltissime libertà nei confronti della trama originaria. Gli elementi "politici" del film, per esempio, sono debolissimi, tanto nella versione uscita nelle sale quanto nella extended version. Le è davvero piaciuto il lavoro di Michele Placido?

«Un film è sempre il tradimento di un libro. Questo è un tradimento al quale ho preso consapevolmente parte, quindi, sì, mi è piaciuto, e proprio, direi, perché "altro" dal romanzo».

Quale è stato il suo primo modello letterario?

«Balzac, senza dubbio. Ho provato autentica emozione visitando la sua casa a Passy. Balzac scriveva su larghissimi fogli, con la sua grafia torrenziale e caotica, l'"albero dei destini" dei personaggi (centinaia di personaggi!) della Commedia Umana. Annotava la genealogia di ciascuno di loro. Ideava le relazioni e inscenava i conflitti. Disegnava bozzetti di tipi umani e a ciascuno adattava il suo perfetto abito, non solo mentale, ma anche fisico. E' stato l'inventore della moderna serialità. Se avesse avuto sotto mano un Pc avrebbe scritto non duecento romanzi, ma duemila. E' il mio maestro in senso assoluto».

In passato ha pubblicato per editori indipendenti. Come giudica il problema delle concentrazioni editoriali, ora che scrive per un grande gruppo?

«Ho pubblicato con piccoli editori (Manifestolibri, Teoria, Liber) e si è trattato di esperienze molto proficue e anche umanamente ricche. Ma lei solleva un problema serio. Non è tanto la concentrazione editoriale in sé che mi spaventa, quanto il fatto che si arrivi a imporre, anche in campo letterario, una sorta di "pensiero unico", come sta accadendo, ad esempio, nel rock. Pericolo che vedo, per fortuna, ancora lontano: la stessa presunta dittatura del noir, della quale qualcuno parla a sproposito, secondo me, in realtà semplicemente non esiste. Basta dare un'occhiata alle statistiche di vendita per rendersene

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