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Ritorno A Barbiana: Don Milani Ci Ha Salvato La Vita

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RITORNO A BARBIANA

Don Milani ci ha salvato la vita

Tra gli ex allievi della Scuola, a quarant'anni dalla morte del fondatore e dall'uscita della "Lettera a una professoressa": in classe tutti i giorni, dalle otto alle otto

ALBERTO PAPUZZI

VICCHIO (FIRENZE)

Si viene a Vicchio, il borgo di Giotto, a cercare le tracce di don Lorenzo Milani, il prete ribelle di Esperienze pastorali (approvato da Luigi Einaudi ma sequestrato dal Sant'Uffizio), quarant'anni dopo la morte, il 26 giugno 1967, e quarant'anni dopo la pubblicazione del libro culto Lettera a una professoressa, tradotto anche in lingua giapponese. Si sale alla frazione di Barbiana, fra le balze aspre del Mugello, sette chilometri più sopra: c'è la piccola chiesa cinquecentesca, di dodici banchi. A destra la canonica, dall'intonaco a pezzi, sede materiale della Scuola di Barbiana. Oltre la canonica, il giardinetto con pergolato immortalato nelle fotografie e una piscina di otto metri per due, perché i ragazzi imparassero a nuotare e non temessero l'acqua (alimentata da una condotta pagata con soldi di Elena Pirelli).

Incontriamo ex allievi che hanno frequentato la celebre scuola per cinque anni, dalle otto del mattino alle otto di sera: «Tutti i giorni, facoltativi soltanto Natale e Pasqua. Era durissima» ricorda Mileno Fabbiani, 59 anni, negoziante di sementi. «In cinque anni io ho saltato soltanto una domenica pasquale» dice Franco Buti, 57 anni, impiegato in pensione. Quindi parliamo con chi studia l'opera pedagogica del Priore di Barbiana e s'impegna per mantenerne viva la memoria, come l'insegnante Bruno Becchi, figlio del sindaco socialista di allora e autore del libro Lassù a Barbiana ieri e oggi. Alla fine si capisce quant'è ingannevole l'immagine oleografica: don Lorenzo Milani era invece un aristocratico della cultura, un pedagogista elitario che sfruttando la propria rete di amicizie mandava i suoi allievi, figli di contadini poveri, a fare soggiorni all'estero. Se non si corresse il rischio di essere fraintesi, si potrebbe parlare dello spigoloso snobismo d'una personalità tagliente.

D'altra parte, proveniva da un'agiata e colta famiglia della borghesia fiorentina. Il bisnonno paterno, Domenico Comparetti, era stato senatore a vita, il padre, Albano, era chimico con passioni letterarie. La madre Alice Weiss veniva da una famiglia ebraica triestina legata a Joyce e Svevo. Non meraviglia che don Lorenzo parlasse bene inglese, francese, tedesco, spagnolo, latino ed ebraico, né che fosse dotato di una Weltanschauung di respiro internazionale. Quello che lascia, negli anni Quaranta, per fare il prete contro i desideri della famiglia e per dare vita alla sua scuola, prima a Calenzano poi a Barbiana, è un mondo ricco e elegante in cui aveva per amici Oreste del Buono e Luca Pavolini. Ci voleva una bella tempra per decidere di tagliare i ponti e isolarsi in una sperduta cappellaneria.

Franco Buti: «Sono stato alla Scuola di Barbiana dopo le elementari, dal 1960 al 1965. Per andare alla scuola facevo ogni giorno quasi dieci chilometri fra andata e ritorno. Eravamo figli di contadini, un gruppetto fra i venti e i trenta, un po' di più d'estate un po' meno d'inverno. S'è avuta anche qualche bambina, ma si sa che i genitori erano dell'idea di tenerle in casa a imparare il cucito». Mileno Fabbiani: «Io vi arrivai perché espulso dalle scuole pubbliche. Dopo le elementari in una pluriclasse, mi mandarono all'avviamento a Firenze. Il primo anno si andò benino, il secondo non ci volevo stare a scuola. Venni espulso e mio padre, che tagliava il bosco sopra Barbiana, provò lì. All'inizio sono riscappato, perché era durissima, ma la scuola di vita di don Milani mi ha salvato».

Com'era una giornata alla Scuola di Barbiana? Buti: «Il mattino presto c'era la messa per chi voleva. Lui ci teneva, ma ci lasciava liberi di andarci o no. Dalle 8 alle 12,30 si studiavano le materie per l'esame da privatisti. I grandi si occupavano dei più piccoli, lui si riservava italiano e storia. Si faceva tutto insieme, si leggevano e discutevano i temi. Lettera a una professoressa è nato così, dal lavoro collettivo, anche se il regista era lui, è lui che alla fine ha scritto il libro. Il pomeriggio era dedicato alla lettura dei giornali: poteva scappare una discussione che non se ne usciva più fuori. Capitavano ospiti, un politico, un giornalista, La Pira o Ingrao. Era prassi che ci si preparava prima, perché l'ospite era da spellare».

Fabbiani è ancora lì quando don Milani muore: «S'è sempre saputo che era malato di un tumore ai polmoni. È riuscito a fare lezione anche sul proprio linfogranuloma: ci ha spiegato il problema dei globuli rossi e globuli bianchi. Ricordo che il fratello, un noto fisiatra, venne con le radiografie. "Devo parlarti". E lui: "Parliamone pure tutti insieme". Penso che lo facesse anche per rassicurare indirettamente le famiglie che la sua non era una malattia contagiosa. Morì a Firenze in casa della mamma. Voleva che a vegliarlo ci fossero i suoi ragazzi, così anch'io andai a fare qualche volta la notte. Mi parlava, mi chiedeva se l'Avvenire scriveva di lui. Insegnava anche a morire. Per me è stato un genitore».

Solo due o tre fra i ragazzi della Scuola di Barbiana hanno proseguito gli studi. L'aspetto elitario è che fra quelle mura si studiava per la vita, per essere cittadini capaci, responsabili. Questa era la sfida di don Milani alla scuola di Stato. Ogni tanto gli ex allievi si ritrovano su a Barbiana, fra i prati scoscesi. Non incontri organizzati, più da cani sciolti. Lassù si adagia un cimiterino, con una quarantina di tombe. Quella di don Lorenzo è una croce e una pietra, con la scritta «Priore di Barbiana dal 1954». Alla madre che gli rimproverava di non aver scelto una carriera da prelato aveva scritto: «La felicità non dipende dalla ristrettezza del posto dove vivi».

TRA ACCUSE E DENUNCE

Una giovinezza irrequieta, poi la conversione

Don Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923. Dal 1930 al 1942 la sua famiglia si trasferisce a Milano, dove lui è studente irrequieto dai Barnabiti e al Berchet. Ma legge in tedesco Thomas Mann. A 19 anni trova un messale nella casa di campagna a Montespertoli, e scrive a Oreste del Buono di esserne rimasto affascinato. A vent'anni si converte e entra in seminario. Nel 1947 è ordinato sacerdote. Cappellano a San Donato Cadenzano, vi fonda una scuola popolare per operai e contadini. Nel 1951 si ammala di tubercolosi. La Curia fiorentina lo accusa per alcuni episodi fra cui i funerali d'una vittima del lavoro con le bandiere comuniste in chiesa. Nel 1954 viene mandato a Barbiana. Nel 1958 pubblica Esperienze pastorali ma il Sant'Uffizio ne ordina il ritiro. Nel 1965, su Rinascita, settimanale del Pci, appare la Risposta ai cappellani militari toscani, che in un comunicato avevano tacciato di viltà l'obiezione di coscienza. Viene denunciato per apologia di reato. Nel 1966 la sentenza di assoluzione. Nel maggio 1967 esce in maggio Lettera a una professoressa. Un mese dopo, il 26 giugno, don Milani muore a Firenze. Postumo esce L'obbedienza non è più una virtù.

+ La sua utopia si è realizzata, purtroppo

FONTE

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