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Furini, La Gentilezza Del Tocco

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furini01va2.th.jpgLa riscoperta di un genio precoce del ’600 che sfuma il manierismo nelle pastosità barocche

FIRENZE

Quasi un Caravaggio raccontato in un sogno di Shakespeare», ebbe a dire un sottile letterato come Luigi Baldacci, fine conoscitore di pittura, di fronte a quel capolavoro precocissimo di seterie e di affetti, che è l'Aurora e Cefalo di Francesco Furini: una sorta di monteverdiano Sogno d'un tramonto di mezz'autunno, bagnato di rosse ceralacche sfinite e di nubi sfibrate nel blu lapislazzulo di corte. Quasi un'oppiacea dissolvenza incrociata, che sfuma la concitazione manierista per avviarsi, a capofitto onirico, verso le vorticanti carole della pompa barocca. Sapeva il fatto suo, in odore di carriera, il talentuoso e precoce Furini, che retour de Rome, ove aveva voluto conoscer le delizie di Raffaello e il vigore dei marmi classici, alla vigilia della processione di San Giovanni in Firenze, fa garrire da un balcone di Palazzo Spini la sua gran tela mitologica, per attirare l'attenzione dei collezionisti più sofisticati: e ci riesce, agganciando quel raffinato Alessandro del Nero, una specie di Gagosian del Bello Classico, imparentato col protettore di Caravaggio, Cardinal del Monte, che indìce un'asta per l'opera e ne fa un personaggio.

Precoce da sempre, il Furini, figlio d'un pittorino di ritratti, capace di fuggire da maestri maneschi, mai poi pago, in un'infilata di botteghe alla moda da far invidia a chiunque, nell'apprendere senza farsi troppo condizionare. Prima il lucido e bronzinesco Cristofano Allori, amico e complice di papà, nelle serate di frottole (mentre la sorella è una musica apprezzata, nella cerchia del Peri e di Caccini, gli «inventori» del melodramma italiano). Troppo malato l'Allori, lo spedisce dal troppo manierista e rigido Passignano, meglio allora «la vaga maniera di dipignere» di Bilivert, di lombi fiamminghi. Ma è forse Cosimo II a consigliare infine il più à la page Bartolomeo Manfredi, responsabile di quel «manfrediana methodus» che diffonde per mezza Europa la lebbra del caravaggismo.

Ma Francesco ha i suoi anticorpi, in una gentilezza innata ed in una pastosità correggesca, che non solo lo rende inconfondibile, ma usa il chiaroscuro come una sorta di rimmel atmosferico, per segnare le ombre, nutrite di tenerezza e poi subito disfarle, in una sorta di lucore pastellato, di cipria lunare. Che lo conduce piuttosto verso gli argentei incanti femminei di un Guido Reni, con cui si trova a duellare, a Venezia, «chiamato dagli esteri», che riconoscono i suoi meriti. E deve subito proporre un pendant degno, e pieno di grazia. Uno di quei «prodigi di sartoria», come scrive l'ottimo curatore Rodolfo Matteis (accanto a Mina Gregori, che da anni studia questo artista complesso) un castissimo mottetto di carni frollate, che non dimentica mai però la bellezza atteggiata d'un nudo di schiena, immerso in un bagno fosforescente di lapislazzuli.

Furini si rifà alla statuaria antica, come se i suoi fantasmi mitologici balzassero fuori danzando da un bassorilievo antico: ma al marmo infonde vita e fiato crepuscolare, rendendo persino morbido e pastoso il suo crollante San Carlo Borromeo. Tutto è rotondo in lui e gommoso, come le lagrime di glicerina delle sue Maddalene, infuocate di pallori, che spesso si mostrano solo di terga. Sacerdote lui stesso, ma sublime regista del nudo, quel che fa infuriare il suo bigotto biografo, il Baldinucci. Ed è vero che sempre qualcosa di atteggiato, di teatrale, di schioccato dal flash dell'attimo irrigidito, si avverte nella sua pur naturalissima pittura, vedi l'irrigidita moglie di Lot: che è già di sale, ma parrebbe voler sfoderare ancora l'ultimo passo di danza. Si confronti la sua Giuditta con quella di un'Artemisia: sì, il macabro c'è, ma la scimitarra, come curva ed orientale, ingentilisce il gesto feroce quasi fosse un numero da circo, mentre il sangue educato si diffonde sul velo, come un fiorame esotico. A Roma ha assaggiato il barocco nascente del Bernini e traduce nel primato del disegno fiorentino (che con lui si traghetta sino alle odalische di Ingres) questa imprevista «lasciva naturalezza anatomica» di cui parla in un saggio magnifico Roberto Contini, degno figlio d'arte.

FOTO Alcune delle opere in esposizione

Fonte.

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