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Pittura Fa Rima Con Scrittura

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C’è un bel libro di Michel Butor, il rappresentante del Nouveau Roman, rivale di Robbe Grillet e bibliofilo accanito, che si chiama Les mots dans la peinture, «le parole nella pittura», risalendo sino alle lambiccate scritture gotiche, che galleggiano dentro tavole istoriate, e studiando anche il fenomeno curioso della firma, che spesso si fa ornamento grafico imprescindibile dentro il labirinto iconografico della pittura stessa. Solo un folle potrebbe pensare di «portare» un testo illustrato, così curioso e stimolante, dentro una mostra. Il Mart non lo tenta, ovviamente, ma con la sua vocazione modernista, prova a ragionare, visivamente, su che cosa sia successo all'arte figurativa, dopo l'eruzione vulcanica della sommossa futurista, che volle, ovviamente, rivoluzionare anche la grafica del libro e di conseguenza del Mondo.

Nell'utopia quasi realizzata di una «ricostruzione futurista dell'universo». Ne esce così una mostra singolare e iper-scritta, una sorta di sogno borgesiano di stanze tutte istoriate, accompagnata da un catalogo-monstre, ipertrofico, per i tipi della Skira. Non una novità dunque, perché il rapporto tra parola ed immagine, nell'opera d'arte, è antico per lo meno quanto la pagina miniata ed i giochi grafici del concettismo tardo-ellenistico. Come ha ben dimostrato una memorabile mostra, curata a Reggio Emilia dall'artista Claudio Parmiggiani, che è presente anche qui, in questa nutritissima schiera di pittori votati alla scrittura e alla parola. Spesso anche d'azione, come ben dimostra quella schiera di serafini giotteschi di Sarenco, che avanzano come agit-prop, al grido di Avanti popolo all riscossa. Così, se quella mostra si chiudeva sugli ultimi piovviginosi calligrammi di Apollinaire, questa si congiunge con altri guerreschi calligrammi dell'italo-francese, per aprirsi poi piuttosto alle rivali parolibere futuriste, di Cangiullo, Balla, Azari e soprattutto di Depero, che s'inventa anche un'«onomalingua» che sul chiudersi ha qualcosa in verità più di vernacolar-partenopeo che non di immaginario, ma che ovviamente vuol competere con il transmentalismo dei coevi artisti russi, divisi tra letteratura ed arte. E magari con il Merz-linguaggio dada di uno Schwitters (Anna Blum, recita integralmente fonetica) o del nostro Evola, finalmente riscoperto.

E del resto ci si rende conto che senza la parola (in quel dissidio magrittiano tra pipa dipinta e non-pipa scritta, così ben studiato dal filosofo Foucault) è difficile pensare al Novecento pittorico senza l'apporto delle parole e delle scritte, degli strappi alfabetici o della ripetizioni tabulari, conficcati nel tessuto stesso del racconto figuratico. Infatti, è pressochè impensabile immaginare un Ben Vautrier o un Bruce Naumann, senza le loro frasi scritte, sulla tela o col neon. Un Kounellis senza le sue mitiche «k» o Ed Rucha, senza il ricorso cinematografico alle parole End o Mothel. O Jasper Johns senza i suoi numeri: difatti questa mostra si sposa benissimo con quella appena «trascorsa» alle Papesse di Siena, che s'intitolava Numerica. C'è chi si diverte, chi aggredisce, chi soffre attraverso le pareti e le scritte lacerate, chi vive una nostalgia proustiana della parola perduta, oppure chi urla, come la grafica da magnetofono strepitante dell'avanguardia majakovskiana sovietica. Nonostante la presenza pressoché esaustiva di tutti i movimenti (ma forse il Situazionismo e il Lettrismo avrebbero meritato più attenzione) ognuno può disegnarsi il proprio cammino attraverso le varie «tavole» (qui ci si spinge sino alle macchine da scrivere assemblate di Arman). Magari soffrendo per qualche assenza, o sottovalutazione, per esempio nei confronti del debito dovuto ad un grande elaboratore della parola come Emilio Villa, qui subissato da suoi epigoni e saccheggiatori (ma presto Reggio Emilia si ricorderà della sua statura di precursore).

Così come di un Michaux, rispetto a Masson, o di un grande innovatore della grafica immaginaria quale Iziad (o ci siamo distratti, nel mare magnum delle presenze?) magari perfino di un Moreni, di Tadini o Zavattini, invece di tanti minori d'oggi, però à la page. E poi, per le partiture musicali, a partire almeno da Hindemith, non ci sono certo solo Cage o Chiari, modesto scimmiottatore di Ben. Ma soprattutto si può fare a meno, in questo nevralgico scontro tematico, degli autoritratti di Artaud, insieme scritti di folli disegni di sé, e disegnati da una straziante, dolorosa afasia, che buca la faccia della pagina assassinata?

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