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enomis86

Intervista A Pat Metheny

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Pat Metheny: 'Lavoro sempre, voglio un'America diversa e odio gli mp3'

Che fare, quando si hanno due giorni liberi due nel tourbillon di una tournée? Pat Metheny, stacanovista del jazz, non ha avuto dubbi: ne ha subito approfittato per incidere un nuovo disco, “Day trip”, esordio in studio – dopo tre anni di rodaggio “on the road” e innumerevoli esibizioni anche in Italia – del trio che lo vede in compagnia del contrabbassista Christian McBride e del batterista Antonio Sanchez. “Eh sì”, racconta lui, abbronzato e col capello perennemente arruffato, “eravamo reduci da venti giorni di concerti e in attesa di partire per altre quindici date, e siccome viviamo tutti e tre a New York abbiamo preso la palla al balzo. Il progetto iniziale era di registrare un concerto, ma il materiale che abbiamo raccolto suonava appunto come un’esibizione live e non come un disco. Così una sera abbiamo montato e preparato la strumentazione in studio e il giorno dopo ci siamo messi al lavoro di buon’ora. Due take a brano, continuando a suonare senza mai riascoltare nulla di quel che stavamo incidendo. Dalla mattina a tarda notte, con due sole interruzioni per permettere a Christian di tener fede ad altri due impegni che aveva preso in precedenza. Poi ho accantonato il tutto riascoltandolo solo parecchio tempo dopo. Mi sono accorto di non ricordarmi neppure di certi passaggi e sono rimasto stupito io stesso dalla qualità del risultato. Di solito sono ipercritico sui miei lavori, ma stavolta sono davvero soddisfatto. Da qualche anno a questa parte credo di essermi migliorato molto, soprattutto come compositore, avvicinandomi a quel punto magico in cui l’ineluttabile incontra la sorpresa, la scrittura musicale l’improvvisazione, la novità il retaggio della tradizione. E poi il trio è una formula che mi è congeniale, ci sono legato dagli inizi della mia carriera. Il primo disco che ho pubblicato, ‘Bright size life’, lo registrai con Jaco Pastorius e Bob Moses, e si può dire che la formazione che ha inciso questo nuovo album sia il quinto trio importante della mia carriera. Ce ne sono stati di due tipi: qualche volta si è trattato di suonare con sezioni ritmiche già consolidate e affiatate, com’era il caso di Charlie Haden e Billy Higgins o più recentemente di Bill Stewart e Larry Grenadier, altre volte sono stato io il trait d’union tra bassisti e batteristi che non si conoscevano e non avevano mai suonato insieme, come Jaco e Bob, come Dave Holland e Roy Haynes. O come, appunto, Christian e Antonio. Ci abbiamo messo un po’, lo ammetto, a trovare un linguaggio musicale comune, anche perché provengono da due mondi musicali molto differenti. Ho composto con loro in mente, a parte un paio di adattamenti come ‘When we were free’ o ‘The red one’ che avevo già pubblicato nel disco con John Scofield. E ci sono brani, in questo disco, che non riuscirei a immaginare suonati da altri musicisti: pezzi come la title track e ‘Let’s move’ richiedono un tipo di virtuosismo strumentale che credo solo loro, oggi, siano in grado di garantire. E poi Christian e Antonio condividono con me una visione ecumenica del jazz, tutti noi lo concepiamo come una musica capace di abbracciare ogni genere musicale e di muoversi in qualunque direzione. In questo disco, credo, abbiamo proposto dei brani che potremo eseguire centinaia di volte senza perdere energia, freschezza e motivazione. La cosa più importante è sempre lo spirito della musica, l’emozione: e questo trio ha tutte le qualità per esprimerla al meglio”.

Metheny allude a sentimenti privati ma anche “politici”, come esemplifica il brano ispirato a una delle più grandi tragedie moderne degli Stati Uniti, “Is this America? (katrina 2005)”: “Secondo me”, spiega, “i jazzisti hanno la responsabilità di commentare la realtà che li circonda. L’immediatezza dell’improvvisazione e la sofisticatezza del nostro linguaggio musicale ci spingono naturalmente a voler rappresentare l’universo che ci circonda, in modo più o meno letterale o astratto. Come molti americani sono rimasto scioccato nel vedere in tv le immagini del dopo uragano, incredulo che quello fosse proprio il mio paese. In questo periodo, purtroppo, ne succedono tante di cose che mi inducono a pormi quella domanda, se questa sia davvero l’America di oggi. La musica che ho scritto nell’occasione non è né triste né allegra, cattura un momento così com’è, una qualità a cui aspiro spesso con le mie composizioni. Se mi aspetto un cambiamento con le prossime elezioni? Certo che sì, comunque vada sarà impossibile far peggio di adesso. Faccio ancora fatica a credere a quel che è accaduto negli ultimi otto anni, ma se è successo evidentemente questo è ciò che ha voluto la maggioranza dei miei concittadini. Per questo, oggi, non ho molta fiducia nel popolo americano. Però sono quasi certo che il 21 gennaio 2009 avremo come nuovo presidente Barack Obama o Hillary Clinton, e che vivremo un cambiamento radicale nella politica del mio paese. A me piacciono entrambi, vorrei vederli insieme”.

“Day trip” a parte, l’infaticabile Metheny è alle prese come al solito con molteplici progetti: una locandina all’interno del nuovo cd pubblicizza le rimasterizzazioni del suo vecchio catalogo, in cui è stato coinvolto in prima persona. “Ai tempi in cui incidevo per la Geffen eravamo ai primi passi dell’era digitale. Si impiegava ancora la tecnologia a 16 bit, mentre negli ultimi cinque anni si sono fatti passi da gigante. Per me, oggi, è una fortuna essere con un’etichetta come la Nonesuch, che condivide la mia stessa preoccupazione per il dettaglio. Su ‘Song X’ ho fatto un lavoro di totale rimissaggio, tanto che sembra quasi di ascoltare un disco diverso. Mentre su ‘Secret story’ siamo intervenuti anche sulla parte grafica, migliorandola notevolmente”. A proposito, anche “Day trip” sfoggia una copertina bella e curata. “L’autore, Josh George, è un ragazzo di appena venticinque anni che arriva dalla mia stessa cittadina, Lee’s Summit in Missouri. Per me è un genio, il nuovo Thomas Hart Benton. Un giorno io e mia moglie, che ha una galleria d’arte a New York, eravamo a trovare i miei genitori e un’amica di mia mamma ci segnalò il figlio di quest’altra sua amica che faceva il pittore a New York. Siamo andati a cercarlo e c’è piaciuto subito moltissimo. Quando gli ho spiegato la mia idea grafica, basata sul concetto di viaggio, lui ha fatto subito quel bellissimo schizzo in bianco e nero che è riprodotto all’interno del libretto del cd. E con la copertina, la sua prima in assoluto, si è superato”. Ci tiene eccome, Metheny, alla qualità dei prodotti che mette in circolazione, ed ecco perché mostra pochissima simpatia per gli mp3. “Per me sono una porcheria, un insulto per le orecchie. Io un iPod non ce l’ho nemmeno. Certo, è comodo e pratico caricarsi la musica preferita su un computer e io stesso lo faccio quando vado in tour in giro per il mondo. Ma scaricare canzoni da Internet, per me, è un’attività priva di anima. Va bene se ascolti i Maroon 5 e Britney Spears, ma bisogna ricordare che in giro ci sono anche tante persone che fanno dischi: e per dischi intendo opere complete di grafica, di immagini, di note di copertina che servono a dare un senso compiuto al progetto. E’ una forma d’arte e mi spiacerebbe molto se scomparisse del tutto. Quel che non capisco è come faccia la gente ad accettare passivamente un prodotto di qualità così infima e povero di informazioni. Lo stesso cd rappresenta un degrado del suono originale, se lo si confronta con la qualità dei 24 bit di quando si mixa un album in studio. E l’mp3, ovviamente, è un altro gradino più sotto. Credo, e mi auguro, che con l’Internet di seconda generazione e la banda larga si diffonderà il suono ad alta definizione e verrà data al consumatore la possibilità di fare confronti e scegliere con che qualità ascoltare. Mi aspetto che accada quel che è successo con la tv hd: dopo averla provata, soprattutto chi guarda lo sport in televisione non ha più voluto tornare indietro. E spero che esisteranno ancora delle case discografiche in grado di occuparsi di queste cose, altrimenti per la musica sarà il caos”. Ci sono nuovi chitarristi, nella sua attuale playlist? “Oh, certo. Lage Lund, per esempio, un norvegese che vive a New York. O il vostro Paolo Angeli, molto originale e fantastico improvvisatore. Oggi il livello medio di capacità esecutiva e di perizia strumentale è altissimo: ma sono pochissimi, al contrario, gli strumentisti in grado di trovare una solida giustificazione concettuale alla loro musica”. Sempre proiettato in avanti, Pat pensa già ai prossimi concerti: anche in Italia si esibirà prossimamente con il Gary Burton Quartet, col quale andrà anche a registrare in studio. Ma quando si ferma, signor Metheny? “A settembre, credo. E non vedo l’ora di trovarmi di nuovo di fronte a una pagina bianca per rimettermi a fare nuove ricerche musicali”.

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