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Niente Paura, Arrivano I Barbari

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In una delle sue poesie più famose, Konstandinos Kavafis immaginava la gente raccolta in piazza, l’imperatore e i consoli in pompa magna - «oggi arrivano i barbari» -, poi lo smarrimento che prende tutti quando viene notte e si capisce che l’attesa è vana, anzi «qualcuno è giunto dai confini, ha detto che di barbari non ce ne sono più». Con un’intuizione empatica che scavalca i secoli (ma che in fondo, se ci pensiamo, può sempre riproporsi) il grande poeta greco coglieva la duplicità di sentimenti che nel declino dell’Impero romano doveva albergare negli abitanti dell’Urbe. I barbari che premono alle porte sono una minaccia, e però anche una soluzione: la possibilità di immettere nel corpo invecchiato di una civiltà esausta, entro le sue forme nobili ma cadenti, lo slancio disordinato e rigenerante di una esogena vitalità.

Alla complessità-contraddittorietà del rapporto tra Roma e i popoli calati dall’estremo Nord dell’Europa e dalle steppe eurasiatiche è dedicata (dal 26 gennaio al 20 luglio) la prima grande mostra archeologica della nuova gestione di Palazzo Grassi, sul solco delle memorabili rassegne che negli anni 80 e 90, con una media di 600 mila presenze, furono tra i maggiori successi dell’istituzione culturale veneziana. Curata con suggestivi accostamenti da Jean-Jacques Allaigon, si intitola Roma e i barbari, e attraverso una panoplia di oltre duemila pezzi si propone di fare giustizia dei luoghi comuni: mostrando che i barbari non erano poi così «barbari», che con Roma non fu solo scontro e che il loro avvento, nei primi secoli della nostra èra, più che la catastrofe della civiltà segnò (come suona il sottotitolo) «la nascita di un nuovo mondo».

Certo il conflitto ci fu, e pure cruento, evocato già nell’atrio dall’intrico di corpi in lotta nel rilievo del sarcofago del Portonaccio: un’immagine tipica della propaganda romana. Ma per le armate imperiali non erano tutti trionfi. In un dipinto ottocentesco di Lionel-Noël Royer si vede Germanico di fronte ai resti delle legioni di Varo, dopo la disfatta del 9 d.C. nella foresta di Teutoburgo: scheletri a pezzi, corazze frantumate, un orrore davanti al quale perfino il condottiero a cavallo, vendicatore dell’onore romano ferito, sembra indietreggiare. Proseguendo, a un marmo del I secolo a.C. (coevo alle campagne di Giulio Cesare) raffigurante un gallo nudo con le mani incatenate dietro la schiena fa da contrappunto un altro quadro di fine ’800, di Joseph-Noël Silvestre, dove uomini parimenti nudi devastano il Foro, inerpicandosi con le funi su una statua colossale per abbatterla (una scena vista molte volte in questi anni): è il sacco di Roma da parte dei visigoti di Alarico nel 410, riportato da Sant’Agostino in un discorso allarmato («Le notizie sono orribili! Non ci sono che cumuli di macerie, incendi, saccheggi, omicidi, torture»).

Ma erano davvero così nudi e feroci i barbari che a partire dal III secolo iniziarono le loro scorribande nei territori dell’Impero? Sicuramente non erano nudi, come è evidente dagli abbondanti reperti in mostra: non solo lunghe spade di ferro, e pugnali, lance, elmi, scudi, corazze (a volte con dettagli in oro), ma anche fibbie, spille, monili e ogni sorta di accessori non privi di un loro «barbarico» vigore, e con il passare del tempo di una progressiva raffinatezza (la tecnica di smaltarura cloisonné, quale risalta per esempio nel tesoro della regina franca Aregonda, fine del VI secolo). E non erano neppure così univocamente incivili.

Il fatto è che i barbari non costituivano un mondo separato, ma una realtà multiforme con cui Roma si confrontava quotidianamente, con cui commerciava, con parti della quale (anche) si alleava per combattere altre parti più minacciose (perfino con l’unno Attila pare ci fossero stati abboccamenti), avviando così un lento processo di acculturazione. Non a caso gli storici hanno sostituito alla nozione riduttiva di «invasioni» quella più propria di «migrazioni»: un grande flusso di popoli, spinti dalla fame o incalzati da genti più «barbare», che muove verso i centri della ricchezza, che ne subisce il fascino e ne adotta gli stili di vita. Come evidenzia il tesoro di Hildesheim, una spettacolosa collezione di argenti romani del III-IV secolo rinvenuta nelle tombe di principi locali del Nord della Germania. O, meglio ancora, il tesoro di Childerico, re dei Franchi che si stabilirono sulle rive della Mosa, sepolto (verso la fine del V secolo) come un capo barbaro, con le sue armi e i suoi cavalli, ma anche rivestito con un manto di porpora e con le insegne dell’autorità romana che aveva esercitato per delega dell’imperatore di Costantinopoli.

Dove finisce il barbaro, dove comincia il (nuovo) romano? Diventa sempre più difficile distinguere, soprattutto dopo l’implosione dell’Impero romano d’Occidente, certificata nel 476 dall’erulo Odoacre. Sui territori che erano stati sotto il ferreo controllo dell’Urbe si installano gli Ostrogoti e i Longobardi (in Italia), i Burgundi, gli Alemanni e i Franchi (nella Gallia), i Visigoti (in Spagna), mentre Iuti, Angli e Sassoni si spingono dalla Danimarca nelle isole britanniche e i Vandali raggiungono l’Africa. Ma ovunque arrivano, i barbari cercano di prendere il meglio, restaurando le opere pubbliche (lo fa il goto Teoderico a Ravenna, lo fanno i Vandali a Cartagine) e avviando un processo di ibridazione favorito dalla comune adesione al cristianesimo.

Dei regni barbarici che allora si affermarono, soltanto quello dei Franchi avrebbe resistito, con il beneplacito di Bisanzio, e grazie all’azione di Carlo Magno avrebbe posto le basi per una problematica ricostituzione dell’unità imperiale. Ma intanto nell’arte come nel linguaggio e nei codici legislativi una nuova realtà si era affermata, che non era più quella classica ma la conservava in qualche modo, adattata alle mutate circostanze. Dopo l’anno Mille le migrazioni-invasioni cessano, seguite da una stabilizzazione che più o meno è arrivata fino a noi. E oggi che di nuovo, dall’Est e dal Sud del mondo, si fa sentire la pressione, per noi figli meticci (anche) di quei barbari ripensare la storia dei secoli tumultuosi in cui si è configurata la nostra identità europea-occidentale può essere un modo per affrontare serenamente l’ineluttabile. Nessuna catastrofe è alle porte, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.

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