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Stallone, John Rambo Per Sempre

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ROMA - "Per anni l'identificazione con Rambo mi è sembrata una maledizione. Ora invece credo che dentro tutti noi ci siano paradiso e inferno, il lato generoso e quello oscuro. E così ho capito che in realtà è un privilegio, rappresentare il versante pessimista del mondo, l'eterno soldato che non ha una casa in cui tornare". Inutile dirlo: a parlare così è Sylvester Stallone. Sessantadue anni, aspetto un po' ammaccato (alla Rocky, tanto per citare l'altro suo ruolo-cult), l'attore è in Italia per presentare l'ultimo capitolo della sua saga più adrenalinica e muscolare: "John Rambo", appunto.

FOTO DAL SET - LA SCHEDA DEL FILM

La pellicola, secondo quanto scritto sulla cartella stampa consegnata ai giornalisti, dovrebbe essere l'ultimo capitolo - il quarto - della serie. Dovrebbe... e invece no. Visto che qui a Roma il protagonista, nonché regista e sceneggiatore, fa capire che la parola fine è ancora lontana: "C'è una parte di me che ha grande difficoltà a dire addio a Rambo - spiega Sly, applauditissimo dai cronisti - se dovessi abbandonarlo per sempre mi sentirei depresso. Ho ancora delle idee da realizzare sul personaggio: probabilmente questo non sarà il film conclusivo". Come è stato, invece (a meno di ulteriori ripensamenti) per "Per Rocky Balboa", con cui recentemente Stallone ha chiuso la saga del pugile più famoso del cinema.

VIDEO: LA CONFERENZA STAMPA di CHIARA UGOLINI

E del resto, si può capire la ritrosia dell'attore ad abbandonare il ruolo del reduce dal Vietnam. L'ex soldato disfunzionale che abbiamo visto nel primo film, quello del 1982, alle prese con gravi sintomi di stress post-traumatico; nel secondo (1985) impegnato di nuovo nel paese asiatico, per salvare alcuni prigionieri ancora nelle mani dei Vietcong; nel terzo (1988) al fianco dei ribelli afgani che si opponevano all'invasione sovietica; e che stavolta, nel quarto, salva un gruppo di volontari dalla ferocia della dittatura birmana. Il fatto è che Rambo, già alla sua prima apparizione sugli schermi, è subito diventato qualcosa di più di un personaggio: un fenomeno di costume, una parola per indicare qualcosa di ben definito. La voglia di ribellarsi, le ferite della guerra, la volontà di vendetta.

E infatti, i dizionari di moltissime lingue hanno adottato la parola Rambo, per descrivere questo approccio al mondo. E gli altri esempi potrebbero continuare. Eccone uno: ben 25 anni dopo l'uscita del primo film, nel 2007, la soldatessa Jessica Lynch, protagonista di un celebre episodio del conflitto iracheno, davanti al Congresso disse: "Non sono una ragazza Rambo", per spiegare il suo ruolo in guerra. Mentre un resoconto del Pentagono, sempre di un anno fa, parla dei disordini mentali dei militari definendoli "il problema Rambo". E ancora: si possono trovare borse per la spesa con le immagini di Rambo in Estremo Oriente, e magliette dedicate al personaggio dall'Africa all'America Latina. Insomma: un fenomeno globale.

Di fronte a tanta celebrità, a questa forma un po' tragica un po' muscolare di icona pop, è difficile giudicare John Rambo con i parametri di un film "normale". E lo dimostra anche la proiezione stampa di questa mattina, in cui un bel gruppo di cronisti presenti ha fatto un tifo sfegatato (in parte ironico) per le gesta più clamorose del personaggio. Sottolineando con applausi e grida di incitamento alcuni passaggi, come quelli in cui il nostro eroe uccide un nutrito gruppo di militari birmani armato solo di arco e frecce.

Ma veniamo alla trama. Il film non si concentra sulla persecuzione dei monaci buddisti scesi in piazza per chiedere democrazia, che nei mesi scorsi ha avuto grande eco mediatica in tutto il mondo. Ma su una guerra civile che va avanti nell'indifferenza del mondo da sessant'anni: quella tra il feroce regime militare e il popolo dei Karen, sottoposto a quello che l'Onu ha definito un "genocidio lento ma inesorabile". La storia comincia con Rambo che vive in Thailandia, al confine con la Birmania, cacciando e vendendo serpenti velenosi. Finché non gli viene chiesto di trasportare in un villaggio oltrefrontiera un gruppetto di medici volontari.

Dopo aver compiuto il lavoro, Rambo viene contattato di nuovo: il luogo infatti è stato attaccato dai militari birmani, e gli occidentali presenti sono stati fatti prigionieri. Da qui comincia la seconda, e più lunga, parte del film, in cui il nostro eroe, come previsto, ammazza una quantità industriale di nemici, tutti cattivissimi. In un crecendo di adrenalina e pallottole. "In Birmania le atrocità accadono davvero", ricorda Sly.

Per il resto, Stallone conferma il suo appoggio al candidato repubblicano JohnMcCain: "Non perché è un reduce ma perché è una persona matura, mi ispira fiducia, abbiamo bisogno di qualcuno con tanta esperienza per recuperare la dignità che il paese ha perso in questi otto anni". E poi ricorda con un sorriso le reazioni controverse che suscitò con Rambo 3: "Il film era centrato sull'invasione sovietica in Afghanistan, ma poi, prima che uscisse, Gorbaciov venne negli Usa, diede un bacetto a Reagan e proclamò la perestroika: e così a quel punto il nemico diventai io, non sapete quanti fischi ho preso in tutto il mondo...". Come a dire: anch'io ho provato la condanna di essere anacronistici. Un po' come il suo Rambo.

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