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Tra La Tigre E Il Coccodrillo

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Il sorriso di Norodom Sihanuk - monsignore, principe, re, secondo le stagioni alterne della cronaca cambogiana - è una maschera tragica. Con quel sorriso e con ripetute acrobazie politiche si è difeso dalla continue interferenze di troppi paesi potenti. Anche il sorriso di Pol Pot era una maschera, che nascondeva la follia politica e una brutalità sanguinaria, in un paese dove tutti dovevano vestirsi con il pigiama nero dei contadini. Lo stesso sorriso enigmatico è scolpito da secoli sulle statue di Angkor Wat, il monumento più spettacolare della Cambogia. La sfinge è un simbolo universale, senza tempo, cresciuto nel deserto, lungo le rive del Nilo, e poi nella giungla, lungo le rive del Mekong.

Si comportò come una sfinge anche l’Occidente dopo la caduta di Pol Pot, all’inizio del 1979, quando giorno dopo giorno venivano scoperti i campi della morte, dove furono sterminati due milioni di uomini e donne, quasi un terzo della intera popolazione cambogiana. I paesi che decantavano il rispetto dei diritti umani lasciarono impassibili, per anni, che i khmer rossi occupassero il seggio della Cambogia all’Onu, nonostante i massacri.

Alla sfinge cambogiana è dedicato Fantasmi, la raccolta degli articoli di Tiziano Terzani mandati dalla Cambogia per una ventina di anni, condivisi emotivamente e ordinati oggi con rigore, come rivitalizzati, da sua moglie Angela. In quel paese lui legge, meglio che in altri luoghi, la parabola delle vicende umane, delle promesse tradite, della vitalità impetuosa che esplode dopo i conflitti, e che rinnova i vizi e i guasti che la rivoluzione voleva eliminare. Una donna sopravvissuta ai massacri racconta nel libro: «Non ci resta che scegliere fra due modi di morire. Se andiamo nella foresta ci mangia la tigre. Se entriamo nel fiume ci divora il coccodrillo». È lo stesso dilemma che ha accompagnato Sihanuk negli anni, descritto perfettamente in una intervista mandata da Terzani a Der Spiegel, non pubblicata allora ma messa in salvo nel libro. Forse è la pagina più interessante della intera raccolta.

Chi ha visto le macerie della Cambogia dopo la caduta dei khmer rossi e guarda la realtà di oggi - lo stato senza regole, il primo ministro Hun Sen inamovibile come un monarca ereditario, l’economia selvaggia, il turismo praticamente impunito dei pedofili - scopre che i fantasmi non sono una metafora. Allontanandosi da Phnom Penh e risalendo verso Rattanakiri, sugli altipiani al confine con Vietnam e Laos, si attraversa un paese sempre uguale, dove i khmer rossi potrebbero essere passati pochi minuti prima: villaggi poverissimi dove uomini e bambini vivono nelle capanne insieme agli animali, alberi abbattuti con fuochi che li corrodono lentamente alla base, minoranze etniche che vagano nella foresta, ospedali che sono miraggi inafferrabili. Da Rattanakiri partì la guerriglia che progressivamente si allargò, scendendo in pianura e conquistando Phnom Penh. Oggi sugli altipiani non ci sono più i guerriglieri che avevano studiato alla Sorbona e che promettevano i miracoli della ideologia. Oggi ci sono le chiese dei missionari stranieri che lanciano altre promesse.

Terzani allora raccontava la guerra. E questo libro può essere letto come un trattato militare a puntate, per spiegare l’Iraq e l’Afghanistan di oggi. Gli aerei americani condotti da mercenari filippini, coreani, taiwanesi rifornivano Phnom Penh assediata dai khmer rossi. L’esercito governativo dilatava il numero dei soldati per consentire agli ufficiali di intascare gli stipendi pagati da Washington. I bombardamenti aerei per reazione gonfiavano la guerriglia da 3000 a 70000 uomini in pochi anni. Il monsone scandiva il ritmo delle offensive, come la neve in Afghanistan e le tempeste di sabbia in Iraq. Si raccontava di un sosia esibito al posto di Khieu Samphan, il capo dello stato. E Pol Pot era assistito da 20 mila esperti cinesi. Che scapperanno assieme a lui.

C’è un personaggio, Thomas Enders, numero due della ambasciata americana a Phnom Penh nei primi anni ‘70, che ricorre come una ossessione nel libro. Enders dirigeva i bombardieri contro la guerriglia, senza impedire però che quegli uomini arrivassero al potere. Alcuni anni dopo ricompare in Nicaragua e Salvador, e anche lì ripete la stessa strategia applicata sulle rive del Mekong. Come venti anni più tardi farà Negroponte, dal Nicaragua a Baghdad. Come farà Zalmai Khalilzad da Washington a Kabul e poi a Baghdad. La giostra della grande diplomazia gira sempre allo stesso modo. Un professore di liceo commenta l’aiuto militare occidentale e dice a quel cronista fiorentino, sempre vestito di bianco per non apparire contiguo alle divise militari: «Ci hanno distrutto, ma non ci hanno salvato». Era ancora il 1973, Pol Pot avrebbe preso il potere due anni dopo.

Gli articoli di giornale hanno vita effimera. E solo una dozzina di cronisti sparsi per il mondo si sono interessati con ostinazione alle sorti della Cambogia. Certo un gruppo di giornalisti cinesi invitati da Pol Pot videro in quel paese di incubi, completamente isolato dal mondo, «meravigliosi successi». A distanza di anni i dispacci di Terzani invece vanno oltre il ritratto della sfinge cambogiana, rimuovono quella maschera sorridente che ha nascosto i carnefici, i loro complici stranieri, e ingannato le vittime.

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