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Vent’anni: E A Burri Già Serve Un Lifting

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Una notizia arriva da Gibellina, l'altra da Parigi. Ma si somigliano. Le opere monumentali di Alberto Burri e di Daniel Buren hanno bisogno di urgenti interventi di restauro. Il Grande Cretto dell'artista umbro, 12 ettari di arte abitabile ideato negli anni Ottanta nella valle del Belice, e Les Deux Plateaux, le colonne con cui il francese ha adornato la piazza del Palais Royal nel 1986, sono in pessime condizioni. Per una volta l'Italia sembra battere la Francia perché loro discutono e polemizzano (Buren ha anche denunciato una «negligenza generale» del governo francese nei confronti degli interventi contemporanei), mentre qui da noi Burri lo si restaura per davvero. È infatti partito un «cantiere della conoscenza» voluto dal Museo regionale d'arte contemporanea di palazzo Riso a Palermo che condurrà alla gigantesca impresa di recuperare i circa 65.000 metri quadrati dell'opera: il più esteso restauro italiano.

Sergio Alessandro, direttore del Museo, indica l'estate come data di inizio dell'intervento. Risorgerà così una straordinaria impresa di «arte ambientale» che ha anche una forte componente simbolica. Alberto Burri fa parte di quel nutrito gruppo di artisti importanti chiamati dall'allora sindaco di Gibellina Ludovico Corrao, a realizzare una grande opera nella città appena ricostruita dopo il tragico terremoto del 1968. È il 1981 quando giunge per il sopralluogo e la sua reazione è immediata: «io qui non faccio niente». Non gli piacevano le palazzine. Rimane invece folgorato dalle macerie della città vecchia, quella buttata giù dal sisma e poi dalle ruspe perché giudicata pericolosamente instabile. Gli piace l'idea di lavorare lì e pensa di ricoprire con un'enorme colata di cemento, bianco come fosse un sudario, ciò che si è perduto. Sotto la sua opera c'è la terra che ha tremato. E la memoria. Tutto questo però, dopo appena vent'anni, ha già bisogno di un «ritocco».

La domanda che ci si pone di fronte a Burri e Buren è dunque la stessa: com'è possibile che un'opera d'arte duri meno di un volto senza rughe? Gli affreschi nelle chiese, i monumenti nelle città, le architetture antiche sopravvivono per secoli, mentre il Novecento sembra aver inaugurato una concezione dell'opera che si consuma sempre più velocemente.

Giuseppe Basile direttore del settore dei Beni storici e artistici dell'Istituto centrale del restauro di Roma, fa parte del comitato dei garanti istituito per la rinascita del Grande Cretto. Ha recuperato, tra le altre cose, gli affreschi di Giotto nella cappella degli Scrovegni di Padova, ma qui si trova di fronte a problemi completamente differenti. «E’ molto più facile restaurare Giotto che Burri! Perché con la pittura antica abbiamo dei metodi già collaudati, sappiamo cosa fare in anticipo. Con gli artisti contemporanei devi valutare tutte le volte perché a loro, nella maggior parte dei casi, non interessa la sopravvivenza dell'opera - dice convinto -. A volte per evitare l'eccessiva commercializzazione dell'oggetto utilizzano volontariamente materiali effimeri, destinati a deteriorarsi. In questo caso Burri voleva ottenere un effetto di movimento nei muri che costituiscono il Cretto. Così ha inserito delle lamiere ondulate sotto il cemento armato. Il ferro in alcune parti non è stato totalmente coperto dal calcestruzzo e questo ne ha provocato l'ossidazione. Noi restauratori abbiamo il dovere di salvaguardare la sopravvivenza dell'opera e nello stesso tempo di rispettare la volontà dell'artista».

Alberto Burri, uno dei grandi protagonisti del Novecento italiano, è scomparso, a quasi 80 anni, nel 1994. Non è quindi possibile ascoltare la sua opinione in proposito. Ma quando l'artista è disponibile l'équipe di restauratori incaricata del «lifting» di una sua opera lo contatta? «Come una delle tante voci, uno dei supporti informativi possibili, uno strumento alla stessa stregua delle indagini scientifiche. O delle informazioni che ci dà l'opera stessa. Il restauro del contemporaneo è estremamente complesso. Per questo sto pensando di scrivere un manuale rivolto ai collezionisti e ai musei per evitarne il degrado. L'ho già fatto per gli ecclesiastici e per i vigili del fuoco, persone a contatto con gli oggetti d'arte, che involontariamente possono fare dei danni».

Ma qual è il problema più grande? «I materiali. Nel Novecento si usa di tutto. Penso alla sedia di Beuys ricoperta di grasso, alle opere di Kounellis con le scarpe, la iuta, il carbone, i neon di Mario Merz: quel tipo di luce non la trovi più e se la devi cambiare fai una replica, non è più l'originale. A me è successo di dover rifondere la Sfera in bronzo di Arnaldo Pomodoro che sta davanti alla Farnesina. È stato doloroso ma non c'era altro modo per recuperare una cattiva messa in opera. E poi non bisogna sottovalutare l'inquinamento. Un'opera invecchia prima anche per l'aria che la circonda fin da quando prende corpo».

Il problema quindi riguarda anche le materie più tradizionali come il bronzo e la pittura? «Certo! Perché gli artisti non conoscono più le tecniche!» afferma con convinzione Valeria Merlini, che in tandem con Daniela Storti ha ridato l'antico splendore alla Madonna dei Pellegrini e alla Conversione di Saulo, capolavori di Caravaggio. «Le opere che ci portano a restaurare sono sempre più giovani. Se non sai preparare una tela, se la fissi male sul telaio, se sbagli un impasto, se usi un essiccatore troppo potente, se non dai la giusta verniciatura finale il colore si stacca, si altera, la tensione cede… C'è la corsa al materiale industriale: si fa più in fretta, è facilmente recepibile ma non se ne conoscono bene neanche gli effetti». Insomma, è come sempre tutto più veloce. La creazione di un'opera, ma anche la sua rovina.

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