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L'occhio Di Bacon Spella L'interiorità

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Due quadri di Bacon in mostra, Studio per un ritratto del Museo di Chicago e Sfinge del Museo Toyota di Aichi, erano già esposti alla Biennale di Venezia del 1954 nel padiglione inglese, ma era troppo presto perché fosse avvertita la loro presenza in piena bagarre fra astrazioni, realismo sociale, informale nascente, realismo esistenziale di là da venire. Ben altra eco, con deflagrante recupero figurale di angoscia esistenziale in tempo di crisi dell'informale e di imminenza del grado zero, ebbe l'irrompere a partire dalle personali del 1958 alla Galatea di Torino di Tazzoli e Carluccio, all'Ariete di Milano e all'Obelisco di Roma per arrivare alla mostra alla Gam di Torino del 1962. L'Italia giocava ormai le sue carte in tempo reale. Le mostre italiane seguivano di un solo anno il primo approdo dall'Inghilterra a Parigi, alla Galerie Rive Droite con il critico (e testimone lungo tutta la vita) David Sylvestre, che ricompare anche all'Ariete a Milano.

Rudy Chiappini, per riprendere il discorso della fondamentale mostra postuma di Lugano del 1993 (della quale ritornano qui le prime opere di arte applicata, come il Paravento dipinto del 1929), ha chiamato a raccolta più di venti musei di arte contemporanea: Inghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti, Australia, Olanda, Israele, Giappone, Messico, Svizzera. Attingendo a questa ricchezza di fonti veramente globale, è merito di Chiappini aver riportato alcune opere chiave di Torino 1962, come l'aurorale incubo surreale Figure in un giardino intorno al 1936, oggi della Tate Gallery, Studio di figura II - Maddalena del 1945-46, modello per tutta la vita della pittura di Vacchi, e soprattutto Papa I del 1951 del Museo di Aberdeen in viola, nero e biacca, ispirato a detta dello stesso autore a una foto di Pio XII in poltrona gestatoria. Assieme alle due tele veneziane, queste opere costituiscono l'esordio di un discorso atrocemente autoreferenziale e masochista (quanti e quali i suggerimenti ad Arnulf Rainer!) chiunque sia nella realtà il soggetto ritrattato.

Prevalentemente nella ristretta cerchia di amici, fra cui Lucian Freud, amiche, amanti, un susseguirsi di vite stroncate intorno all'asmatico cronico, curato a morfina fin dall'infanzia ma sopravvissuto fino a 82 anni nel caos lucidamente programmato e organizzato della casa-studio londinese al 7 Reece Mews, South Kensington, dove visse dal 1960 alla fine. Questa - capillarmente fotografata e ricostruita con il suo contenuto trash, con filologia archeologica, nella City Gallery The Hug Lane della patria Dublino - è la coinvolgente protagonista scenica della mostra, che si apre con la macrofoto della scala di legno d'accesso alle due stanze superiori, fra cui lo studio, e si chiude con la porta su strada e la serranda del garage-magazzino.

Nel 1984 l'artista dettava a Sylvester: «Mi sento a casa in questo caos perché il caos mi suggerisce delle immagini. E comunque adoro vivere nel caos». Le prime due sale ospitano la pulsante proiezione sulle pareti degli slide dello studio e alcuni esempi cartacei, foto ritagliate e assemblate e libri con riproduzioni (Velázquez, foto di Muybridge, disegni di Michelangelo) estratti dall'ammasso trash in cui Bacon viveva e operava. Il visitatore ha qui la chiave sorgiva delle successive 60 opere, fra cui 11 trittici, recupero esistenziale, viscerale e analitico, della sacralità gotica e rinascimentale: da quelli delle teste di George Dyer del 1964 e di Lucian Freud del 1965 a quello, elementare e carico di solitudine, del 1984, dell'ultimo compagno ed erede John Edwards, della Yageo Foundation di Taiwan.

Salvo minime eccezioni, come l'africano-simbolistico Elefante che guada un fiume del 1954 - ma anch'esso probabilmente dedotto da un libro fotografico -, il fuoco dell'occhio di Bacon, sviscerante e spellante e vomitante l'interiorità, è esclusivamente volto alla sostanza amata-odiata del corpo, ingabbiato in una prigione mentale trasparente che col tempo assume forme parallele alla pop art inglese. Una sostanza mai recepita «naturalmente», ma sempre attraverso il filtro fotografico. Con un mio sospetto personale, che il sempre rilevato e distorto amore per la scultura michelangiolesca ne nasconda uno segreto per quella di Boccioni.

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