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Reggaeton Dai Ghetti A Shakira Passando Per «gasolina»

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IL GENERE MUSICALE NATO A PANAMA A FINE ANNI 90 METTE INSIEME IL REGGAE GIAMAICANO, LA BOMBA SUDAMERICANA E MASSICCE DOSI DI RAP

Reggaeton Dai ghetti a Shakira passando per «Gasolina»

10/7/2006

di Bruno Ruffilli

Shakira

Certo, il video è intrigante, l'ospite Wyclef Jean ci mette del suo, ma chissà se il nuovo singolo di Shakira sarebbe riuscito a scalare le classifiche senza l'aiuto di un remix che lo ha trasformato - alterandone solo di poco il ritmo - in un sensuale reggaeton. E' un genere nato verso la fine degli Anni 90 a Panama e diventato popolare prima a Porto Rico e poi in tutta l'America Latina. Unisce reggae e dancehall giamaicani con bomba e plena sudamericani, ma anche massicce dosi di rap, perlopiù declamato in lingua spagnola. Una caratteristica che lo rende immediatamente riconoscibile è l'uso della batteria elettronica, che ha una cadenza sempre assai marcata: i suoni sembrano un po' distorti, il tempo è sostenuto ma non velocissimo, perfetto per il ballo. Si chiama «perreo» ed è pieno di ammiccamenti sessuali, tanto che all'inizio il governo di Porto Rico tentò di vietarlo nei luoghi pubblici.

Dal successo di Dem Bow di Shabba Ranks, che lo lanciò dieci anni fa, il reggaeton è molto cambiato: meno reggae e più hip hop, non più solo uomini (c'è anche una diva, Ivy Queen, che fa il verso a Lil'Kim), e soprattutto arrangiamenti sofisticati e produzioni scaltre che lo hanno traghettato fuori dall'underground e spinto in vetta alle classifiche di mezzo mondo. Anche quelle italiane, dove la scorsa estate entrò Gasolina del portoricano Daddy Yankee e ora impazza la venezuelana Shakira con Hips don't lie in versione remix; ma tra i tanti frequentatori di discoteche e serate latinoamericane sparse nella Penisola, il reggaeton è popolarissimo già da tempo.

E che dopo la Spagna (per ovvie ragioni linguistiche) sia l'Italia la terra d'elezione per la nuova invasione latina, sta a dimostrarlo il nuovo video di Don Omar, Angelito, interamente girato a Roma, tra il Colosseo e il Vaticano, con tanto di pini marittimi e fontana di Trevi. Ventott'anni, pure portoricano, William Omar Landrón, detto Don Omar, è uno degli artisti di maggior successo del genere: il suo ultimo album, King Of Kings, uscito il mese scorso, è arrivato al primo posto nella classifica degli album latinoamericani stilata da Billboard. Il precedente live The Last Don è invece finito in vetta alla top ten reggae del magazine statunitense, confermando l'identità ibrida del reggaeton, a seconda che si consideri il pubblico che lo ascolta oppure le radici musicali del fenomeno.

Esploso anche negli States due anni fa con Oye Mi Canto dei N.O.R.E., oggi il reggaeton è un'industria in piena crescita: Don Omar, ad esempio, ha fondato una personale etichetta discografica (VI Music) e firma col suo nome d'arte una linea di abbigliamento sportivo in collaborazione con Umbro. Ha anche studiato il modo di estendere la sua potenziale audience con i duetti (se ne segnala uno in particolare con Gloria Estefan) e le partecipazioni a dischi di altri artisti (Glory, Gallego, Tego Calderón e Héctor, Tito Los Bambinos, i nomi più in vista della vivacissima scena latina). Inoltre, come si conviene ai duri dal cuore tenero, ha fondato un'organizzazione benefica, per aiutare i bambini autistici.

Il meccanismo, insomma, è lo stesso che ha portato l'hip hop dai ghetti alle classifiche. Non per niente, King Of Kings è pensato e prodotto come un disco di Eminem: introduzione (il brano si chiama Predica e cita la Bibbia ma anche I Am a Woman in Love di Barbra Streisand e Bee Gees), poi canzoni senza soluzione di continuità, dai suoni perlopiù elettronici e aggressivi, con testi che parlano di donne e violenza. Non mancano, tuttavia, due ballate, Tu No Sabes e Muñecas De Porcellana, per allentare la tensione. Numerosi anche i riferimenti etnici nei ritmi e nelle melodie, come se Omar passasse in rassegna un po' tutte le minoranze del continente americano: qui un tocco d'India, lì un richiamo all'Africa; c'è perfino un violino tzigano, senza trascurare le liriche in inglese e spagnolo. Ne nasce un disco assai originale, che testimonia la raggiunta maturità del reggaeton anche dal punto di vista commerciale, al di là del tormentone estivo o di un singolo come quello che nel 2004 fece dello sconosciuto Pitbull un protagonista della nuova ondata latina. Era un brano tutto in slang anglo-cubano, con un inserto rap duro e veloce. Aveva, però, un titolo e un ritornello perfettamente comprensibili anche in italiano: c**o.

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