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Monicelli E La Tragicommedia Della Guerra

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Il regista, 91 anni, presenta "Le rose nel deserto", ambientato in Libia nel 1941 con Pasotti, Placido e Haber. "Col mio solito stile: ironia, farsa e anche dramma"

Monicelli e la tragicommedia della guerra "Ma gli italiani allora erano migliori..."

Il regista difende la nostra tradizione: "Generosi senza voler essere eroi Oggi però cambiamo in peggio, siamo regolati dall'economia: un'Apocalisse"

di CLAUDIA MORGOGLIONE

ROMA - La follia della violenza che diventa farsa, la tragicommedia che accompagna qualsiasi avventura bellica, le aveva già raccontate in uno dei suoi cult, La grande guerra (1959), Leone d'oro alla Mostra di Venezia. E adesso - dopo quasi mezzo secolo - il grande vecchio Mario Monicelli torna ad affrontare l'argomento nelle Rose nel deserto: film ambientato tra i nostri soldati di stanza in Libia, durante il Secondo conflitto mondiale.

Un'opera che, malgrado una vena sentimentale più marcata del solito, si inserisce perfettamente nella filmografia del regista. Come lui stesso conferma: "Lo stile di questo film è il mio, lo stesso della Grande guerra, dei Soliti ignoti, di Amici miei, di Speriamo che sia femmina. Una commedia ironica, a tratti amara, e in certi casi perfino drammatica, tragica. Del resto, la commedia all'italiana è proprio questa".

Già. E in effetti l'aria tipica di questo genere cinematografico - compreso quell'eterno sentimento "italiani brava gente", ma con molta diffidenza verso il potere e l'autorità - si respira anche nelle Rose del deserto. In uscita nei cinema il primo dicembre, liberamente tratto dal romanzo Il deserto della Libia di Mario Tobino, e dalla Guerra di Albania di Giancarlo Fusco, il film si svolge nel 1941, in una sperduta oasi libica.

E' qui che si accampa il terzo reparto della trentunesima sezione sanità, incaricata di occuparsi dei feriti di guerra. Diretta da un maggiore innamoratissimo della moglie ma poco adatto al comando (Alessandro Haber), che ha tra i suoi più stretti collaboratori un bel tenentino quasi laureato in oculistica (Giorgio Pasotti), volontario non per passione bellica ma per poter vedere il mondo.

Nell'accampamento, i nostri comunissimi eroi fanno amicizia con un frate italiano (Michele Placido) che aiuta i bambini del villaggio locale, burbero ma efficace nel suo pragmatismo. Ma poi la guerra, che doveva essere lampo, comincia ad allungarsi, e in Africa italiani e tedeschi sono tenuti sotto scacco dagli inglesi. Da qui la necessità, per i protagonisti, di trasferirsi altrove. Dovendo anche sopportare i folli capricci di un generale (Tatti Sanguineti) che li costringe a costruire un cimitero, per fare bella figura con un generale rivale...

Insomma, un'umanità dolente alle prese con un conflitto assurdo: "Se faccio film sulla guerra è perché penso sia da rifiutare - spiega Monicelli, 91 anni, in conferenza stampa - ma io non sono un pacifista: nel 1939, ad esempio, non vedevo l'ora che la guerra iniziasse, perché avevo capito che era l'unico modo per liberarci di fascismo e nazismo. E così è stato. E dunque non sono per la pace a qualsiasi costo". Passando dal piano politico a quello cinematografico, invece, il regista confessa che la sua opera bellica preferita è "Orizzonti di gloria di Kubrick: avrei voluto farlo io".

Ma Monicelli affronta anche altri temi. Rivendicando, ad esempio, la bontà del modo di essere all'italiana: "Negli anni Quaranta come adesso, in fondo siamo rimasti gli stessi. Siamo generosi, non ci perdiamo mai d'animo. Non vogliamo essere eroi, ma poi, se dobbiamo morire, non la facciamo tanto lunga".

Adesso, però, queste virtù stanno per scomparire, avverte ancora il regista: "Se stiamo cambiando, è in peggio. Chi ci governa vuole che siamo non più uomini, ma uomini economici. Vogliono dirci come comportarci, cosa comprare. Ormai la nostra vita è regolata dall'economia: la cosa più orrenda che ci possa essere, si valutano le persone solo in base al rendimento, altrimenti si viene eliminati. L'Apocalisse, per me, è regolarci secondo criteri solo economici".

Parole forti, le sue. Che fanno il paio con quelle pronunciate a proposito dell'atteggiamento dei soldati del film verso le donne, col loro modo di parlarne come degli oggetti: "E' così anche adesso - attacca - quel maschilismo fascista si è mantenuto fino a oggi". Peccato però che lo stesso Monicelli dia un perfetto esempio di questo modo di pensare, quando dice che "gli uomini vestiti da soldati sono sempre a proprio agio, non c'è bisogno di ingaggiare degli attori professionisti per questo. Così come le donne: se le vesti da put****, va sempre bene". E sulla platea, almeno sulla parte femminile, cadono gelo e imbarazzo.

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